22 Marzo 2019
La Suprema Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 7319 del 14 marzo 2019, si è pronunciata in merito alla vicenda di un dipendente che agiva in giudizio (dopo aver rassegnato le proprie dimissioni dal contratto a tempo determinato) al fine di ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e la conversione a tempo indeterminato del rapporto.
La vicenda approdava ai giudici di legittimità dopo che il lavoratore, in primo grado, vedeva precluso l’accoglimento delle proprie richieste proprio perché in costanza del rapporto di lavoro a tempo determinato aveva rassegnato le dimissioni, mentre in secondo grado riusciva ad ottenere una sentenza favorevole dalla Corte di Appello, la quale – dichiarando la nullità del termine e convertendo il rapporto di lavoro a tempo indeterminato – ha ritenuto di dover limitare gli effetti delle dimissioni al contratto a tempo determinato.
I giudici di secondo grado, decidendo nei suddetti termini, hanno motivato la propria decisione sostenendo che “…in mancanza di una espressa dichiarazione che comprovi la volontà di dismettere anche il rapporto a tempo indeterminato o, in difetto di essa, in mancanza di indici sintomatici che consentano di ricostruire un’effettiva volontà in tal senso, le dimissioni non possono che produrre effetti limitatamente al vincolo in corso, alla cui chiusura sono espressamente finalizzate”.
A seguito della proposizione del ricorso in Cassazione da parte del datore di lavoro, i Giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a stabilire se le dimissioni del lavoratore comunicate durante un contratto a tempo determinato possano avere efficacia soltanto nell’ambito del contratto medesimo e non nell’accertando rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in assenza di prova della consapevolezza e volontà del lavoratore di interrompere non già il contratto a termine, bensì il (non ancora) dichiarato rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Gli Ermellini, precisando che la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata più volte sulla suddetta questione (richiamando delle precedenti decisioni) ha affermato che “le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso degli anni, esplica i propri effetti anche con riferimento al rapporto a tempo indeterminato accertato dal giudice con sentenza dichiarativa della nullità del primo dei contratti di lavoro a termine, salvo che il lavoratore non dimostri che le dimissioni sono viziate da errore, sotto forma di ignoranza della sopravvenuta conversione del rapporto, sicché da esse non derivano effetti limitati alla sola anticipazione della data di scadenza del rapporto a tempo determinato cui esse si riferiscono, ma anche sulla continuità del rapporto a tempo indeterminato, la cui esistenza sia accertata successivamente dal giudice (Cass. n. 12856 del 2015)”.
In virtù del suddetto principio di diritto, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, affinché la Corte d’Appello svolga le opportune valutazioni di merito proprio in ordine alla effettiva volontà del lavoratore (su cui grava l’onere della prova) di risolvere, non solo il rapporto di lavoro a tempo determinato, ma quello a tempo indeterminato derivante dalla possibile conversione in sede giudiziale (chiesta successivamente alla risoluzione del rapporto di lavoro).
L’ordinanza in esame (che costituisce un valido precedente a cui fare riferimento nell’ambito del probabile contenzioso che nel breve periodo potrebbe scaturire a causa delle criticità derivanti dalle causali richieste dal cd. “decreto dignità” per i contratti a termine superiori a dodici mesi) è pienamente condivisibile, essendo – peraltro – coerente con la natura stessa delle dimissioni, anche alla luce di un pregresso orientamento giurisprudenziale (richiamato nella medesima pronuncia) secondo cui l’effetto risolutorio delle dimissioni si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore che è preclusivo di una azione volta ad ottenere la conservazione del medesimo rapporto.