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La tutela reale fino ai 70 anni di età?

18 Settembre 2014

Ancora una volta dottrina e giurisprudenza sono impegnate a dipanare la matassa creata da un legislatore, se non confuso, quantomeno confondente in materia di età massima pensionabile.
Già due volte (per tacer d’altre) la Corte Costituzionale è dovuta intervenire in passato per evidenziare la palese incostituzionalità delle norme che obbligavano le lavoratrici ad esercitare il diritto di opzione per poter proseguire oltre il 55mo anno di età (sentenza 137/1986) e il 60mo (sentenza 275/2009), e per escludere quindi la recedibilità ad nutum del rapporto di lavoro nei confronti delle lavoratrici che tale diritto non avevano esercitato.

Oggi, un nuovo intervento chiarificatore è assolutamente atteso per definire il confronto ermeneutico che verte sull’art. 24 co. 4 della legge Fornero (214 del 2011), che estende l’efficacia delle disposizioni di cui all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori fino al compimento del 70mo anno di età.
Invero, l’interpretazione immediata sarebbe sin troppo semplice ed indurrebbe ad escludere la recedibilità ad nutum fino al raggiungimento del nuovo limite di età.
Eppure tale lettura è contestata tanto dalla migliore dottrina (Sandulli) quanto dalla prevalente giurisprudenza, e in effetti è anche incoerente con il primo dei criteri generali posti a fondamento della riforma dei trattamenti pensionistici (equità e convergenza intra ed intergenerazionale) indicati nello stesso art 24 della legge 214/2011.
L’azione ermeneutica della dottrina e della giurisprudenza, d’altra parte, appare fondata su (ragionevoli) valutazioni di equità piuttosto che di diritto, e quindi non risulta di per sé idonea a costituire una sicura indicazione per i datori di lavoro.
Senza dubbio, gli interventi legislativi anche successivi (legge 125/2013, art. 2 co.5) hanno sostanzialmente affrancato la disciplina del pubblico impiego dalla suddetta estensione dell’età lavorativa, ribadendo la prevalenza – rispetto ai principi della legge in oggetto – dei “limiti ordinamentali” che impongono il collocamento in quiescenza al momento del conseguimento dei requisiti per la pensione; di tal guisa, dovrebbe ritenersi che la norma in esame sarebbe quindi di fatto applicabile ai soli dipendenti delle imprese private, pur in mancanza di alcuna esplicita previsione in tal senso, e purtuttavia tale circostanza non pare sufficiente per legittimare con adeguata certezza l’esclusione (per analogia) anche per essi.

Ugualmente, come già ampiamente argomentato nella precedente nota pubblicata on line sul tema, non appaiono costituire un sicuro fondamento per le scelte datoriali le altre argomentazioni utilizzate da dottrina e giurisprudenza, per giungere all’abrogazione di fatto della disposizione: né quelle di contenuto sociale (secondo cui, ad esempio, il prolungamento dell’attività lavorativa fino ai 70 anni comporterebbe il ritardo nell’inserimento nella vita lavorativa dei più giovani e l’incremento dei costi a danno delle imprese), né tantomeno quelle più propriamente giuridiche, quali quelle proposte dalla Corte d’Appello di Torino (sentenza 24 ottobre 2013, secondo cui il prolungamento non vale per chi aveva già maturato il diritto alla pensione) e dal Tribunale di Roma (sentenza del 5 novembre 2013, secondo cui la il prolungamento sarebbe possibile solo in caso di concorde volontà di datore e lavoratore).
Una diversa (ma ugualmente non dotata di sufficiente certezza) interpretazione tende, invece, a ritenere la disposizione come estensiva fino al 70mo anno della sola tutela antidiscriminatoria, ma fa salve le disposizioni esistenti per quel che riguarda il diritto a rimanere in servizio solo fino all’età della pensione (art.4 legge 108/90).

Infine, neppure appare adeguatamente sicura per i datori di lavoro la tesi che tende a ricondurre la previsione della tutela reale alla legge 604/66, in quanto è assolutamente inequivocabile che l’art. 18 della legge 300/70 sanzioni (anche nella versione novellata) il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo.
Lo sforzo congiunto di dottrina e giurisprudenza – tendente ad individuare un percorso logico che legittimi una interpretazione della disposizione che sia coerente con le finalità esplicitate nel medesimo testo legislativo – è apprezzabile e comprensibile.

Tutte le argomentazioni fornite, tuttavia, a causa del tenore letterale dell’art. 24 cit., risultano, allo stato, ancora non fornite del livello di certezza necessario per orientare il comportamento delle aziende private, le quali, ove non intendano correre il rischio di interpretazioni contrarie a quella (invero maggioritaria) sopra esposta – che potrebbero comportare una sentenza di reintegra per assenza delle motivazioni poste alla base del licenziamento – sono oggi di fatto costrette a mantenere in servizio lavoratori già in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso ad un trattamento pensionistico, con conseguente nocumento per l’occupazione giovanile che, ad ogni evidenza, dovrebbe essere oggi la maggiore preoccupazione delle parti sociali e delle forze politiche del paese.
Urge quindi che intervengano la Corte Costituzionale o il legislatore (ipotesi, quest’ultima, preferibile) per eliminare il conflitto interpretativo ed assicurare agli operatori del diritto una lettura della disposizione indiscutibile.

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