3 Luglio 2015
Proseguendo l’esame delle novità introdotte dai Decreti Legislativi n. 80 e 81 del 2015, dopo aver affrontato con precedente nota le disposizioni in materia di collaborazioni autonome, si intende ora fornire un panorama delle modifiche introdotte dal legislatore per quanto riguarda le mansioni dei lavoratori dipendenti.
Anche sotto tale profilo, infatti, il Jobs Act interviene in modo assolutamente rilevante sulla previgente normativa – fondata, come noto, sul divieto di adibizione a mansioni inferiori e sulla nullità degli eventuali patti contrari – modificando il concetto di “mansioni equivalenti” e di “ius variandi” e disciplinando legislativamente il c.d. repechage.
Per ciò che attiene al primo aspetto (equivalenza e ius variandi), deve rilevarsi che il legislatore ha sostituito la precedente nozione di mansioni equivalenti, fondata (secondo la giurisprudenza) sul bagaglio professionale acquisito dal lavoratore in virtù dell’attività svolta, con un concetto di tipo contrattuale.
Il primo comma del nuovo art. 2103 c.c. (in vigore dal 25 giugno 2015), infatti, dispone che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Analogamente con quanto già avviene nel pubblico impiego, pertanto, è stata introdotta anche nel lavoro privato l’idea per cui tutte le qualifiche inquadrate nel medesimo livello contrattuale sono tra di loro equivalenti e, quindi, indifferentemente assegnabili ai lavoratori, salvo, naturalmente, il possesso dei titoli eventualmente prescritti.
Il d.lgs. 81/2015, inoltre, ha previsto che, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla propria posizione, il lavoratore possa essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale.
Di conseguenza, in caso di ristrutturazioni o di riorganizzazioni, i lavoratori interessati dalle modifiche organizzative potrebbero anche essere adibiti a mansioni inferiori rientranti nel livello contrattuale immediatamente inferiore, purché ciò non comporti, ad esempio, l’assegnazione di un impiegato a mansioni di tipo operaio e viceversa.
Il mutamento di mansioni, inoltre, deve essere accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., inoltre, superando un precedente tabù – invero già scalfito nel 2006 da una importante sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 25033) – consente alla contrattazione collettiva di individuare ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale (dirigenti, quadri, impiegati e operai).
In ogni caso, tuttavia, la norma precisa che il mutamento di mansioni previsto dalla contrattazione collettivo o dalla suddetta disposizione di legge deve essere comunicato per iscritto, a pena di nullità, e che il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
In entrambi i casi sopra indicati (mutamento di mansioni per modifiche organizzative o per altre ipotesi previste dai contratti collettivi), il demansionamento costituisce un esercizio dello ius variandi del datore di lavoro e, pertanto, non richiede alcun accordo tra le parti e, tuttavia, non consente alcuna riduzione della retribuzione.
Diversa, invece, è l’ipotesi del repechage, e cioè del mutamento di mansioni (e, in questo caso, anche di livello economico) effettuato, di norma al fine di evitare un licenziamento, nell’interesse del lavoratore.
In tale evenienza, infatti, la norma richiede un accordo tra le parti (c.d. patto di demansionamento), stipulato in una sede protetta (sindacale, DTL, giudiziale o commissioni di certificazione), con cui è possibile stabilire una “modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.
Infine, una ultima innovazione introdotta dal d.lgs. 81/2015, riguarda il c.d. meccanismo di promozione automatica, in forza del quale, salvo i casi di sostituzione di colleghi assenti, il lavoratore temporaneamente addetto a mansioni superiori, matura il diritto alla definitività delle stesse una volta che sia decorso un determinato periodo.
In precedenza, come noto, tale periodo era stabilito dalla legge, in maniera inderogabile, in tre mesi.
Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., invece, prevede che in caso di assegnazione a mansioni superiori “il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”.
Anche sotto tale profilo, pertanto, viene attribuita una notevole importanza alla contrattazione (individuale o collettiva), atteso che il lavoratore può ben rinunciare al proprio diritto alla “promozione” e, inoltre, i contratti collettivi possono prevedere liberamente l’arco temporale di cui trattasi.
Per il momento, tuttavia, si segnala che i vigenti ccnl (stipulati sulla base della previgente normativa) prevedono tutti che l’adibizione a mansioni superiori divenga definitiva dopo un periodo pari a tre mesi; al fine di rendere operativa la nuova disciplina, pertanto, occorrerà modificare i contratti collettivi in essere.