4 Giugno 2015
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 30 aprile 2015 n. 87874, è tornata ad affrontare il tema dell’abuso dei permessi previsti dall’art.33 della legge 104/1992 e delle conseguenze dello stesso.
Sul tema, infatti, la giurisprudenza sta tentando di porre un freno al ricorso improprio a tale tipologia di congedo che, previsto dalla normativa vigente per la legittima tutela dei portatori di handicap gravi, purtroppo, in alcuni casi, viene utilizzato al solo fine di soddisfare esigenze meramente personali.
Così, con la citata sentenza, i giudici della Suprema Corte hanno accertato la legittimità di un licenziamento comminato ad un lavoratore che aveva usufruito di un giorno di permesso “104” per recarsi ad una festa.
Rectius, secondo quanto era emerso nei giudizi di merito dall’interrogatorio del dipendente, lo stesso aveva utilizzato parte delle ore di permesso per recarsi in discoteca e le residue ore per prestare assistenza alla madre affetta da handicap.
Ebbene, sia i giudici della Corte d’Appello de L’Aquila (investiti del secondo grado di giudizio), sia quelli di legittimità, hanno concordemente ritenuto che il comportamento del lavoro non si sia configurato meno grave per il sol fatto che solo una parte delle ore di permesso sia stata dedicata al divertimento, ritenendo che – in ogni caso – il permesso (seppure in misura parziale) sia stato utilizzato per finalità del tutto diverse rispetto a quelle di assistenza cui esso evidentemente mira.
Dunque la Cassazione aderisce ad un’interpretazione rigorosa della normativa che disciplina i permessi 104, nel senso cioè che per tutta la durata del tempo di permesso il lavoratore deve dedicarsi all’assistenza del familiare, senza poter avere ritagli per sé stesso.
Segnatamente i giudici della Cassazione hanno affermato che: «la fruizione del permesso per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali implica di certo un disvalore sociale, atteso che il costo di tali esigenze viene ad essere scaricato sull’intera collettività, considerato che tali permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, poi sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi, e tenuto conto che il datore di lavoro è così costretto ad organizzare diversamente il lavoro con maggiore penosità della prestazione lavorativa per i colleghi di lavoro».
Peraltro la Cassazione ha ritenuto il licenziamento legittimo nonostante la mancanza di precedenti disciplinari a carico del lavoratore, in quanto l’abuso commesso è stato ritenuto di tale gravità da compromettere definitivamente l’elemento fiduciario posto a base del rapporto lavorativo.
La ratio della decisione assunta dai giudici si basa sulla considerazione che la finalità dei congedi in esame non è quella di consentire al lavoratore, che abbia un parente portatore di handicap grave, la possibilità di ricostituire le proprie energie psico-fisiche ma, diversamente, quella di consentire alla persona che soffre di gravi patologie di poter essere assistita dai propri parenti o affini anche quando questi prestino un’attività lavorativa.
Per di più si rammenta che la Cassazione, con sentenza del 4 marzo 2014 n. 4984, in un caso specifico in cui il datore di lavoro aveva demandato ad un’agenzia investigativa il compito di verificare che i permessi de quibus fossero correttamente utilizzati, ha ritenuto legittimo tale controllo precisando che lo stesso – essendo stato effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa – non poteva ritenersi precluso dagli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori (relativi all’utilizzo di guardie giurate ed al personale di vigilanza).
Anche in altri casi analoghi (relativi ad esempio al godimento del congedo parentale), i giudici della Cassazione hanno stabilito che la circostanza di usufruire del permesso per finalità diverse che nulla hanno a che vedere con l’assistenza del minore costituisce, comunque, un abuso del diritto che si ripercuote sul rapporto di lavoro ponendo in serio dubbio la futura correttezza dell’adempimento, trattandosi di una condotta sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti ed essendo irrilevante che nessun danno abbia effettivamente prodotto il comportamento del lavoratore rispetto al complesso ciclo organizzativo e produttivo dell’azienda (cfr Cass. sentenza n. 16207/2008).