3 Dicembre 2011
Con sentenza del 9 novembre u.s., n. 303, la corte Costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate, con separate ordinanze, dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Trani in merito ai commi 5, 6 e 7 dell’art. 32 del d.gls. n. 183/10 (cfr precedente nota dello scrivente Contratti a tempo determinato e indennità introdotte dal Collegato Lavoro, rinvenibile sul sito dello studio, nell’area Pareri pubblici & News).
I dubbi di legittimità sollevati dalla Suprema Corte e dal giudice di Trani si riferivano alle disposizioni del Collegato Lavoro che avevano introdotto:
a) un’indennità onnicomprensiva individuata tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, da liquidare in favore dei lavoratori nei casi di conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (art. 32, comma 5);
b) la possibilità di ridurre alla metà la predetta indennità in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello (purchè stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) che prevedano l’assunzione di lavoratori già occupati con altro contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie (art. 32, comma 6);
c) l’applicazione della nuova disciplina a tutti i giudizi, anche pendenti all’entrata in vigore della legge (art. 32, co. 7).
Secondo i giudici rimettenti, in particolare, la previsione di una indennità forfettaria, circoscritta ad alcune mensilità sarebbe irragionevolmente sproporzionata – per difetto – rispetto all’ammontare del danno realmente sofferto dal dipendente ed indurrebbe, per di più, il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, tentando di prolungare il giudizio o addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna.
Sul punto, la Consulta ha, invece, rilevato come la norma censurata non si limiti semplicemente a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma miri, anzitutto, ad assicurare a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, procedendo dunque alla sua stabilizzazione.
Inoltre, un’interpretazione costituzionalmente orientata della nuova disposizione considera la predetta indennità come riferita esclusivamente al periodo intercorrente tra la scadenza del contratto a termine impugnato e la data della sentenza che accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
In tal modo, l’indennità prevista risulta pienamente rispondente a criteri di giustizia e di equità, tenuto conto, da un lato, che la legge impone oggi termini ristretti per l’impugnazione dei contratti a tempo determinato (eliminando così i pregiudizi derivanti al datore di lavoro dall’inerzia colpevole del dipendente che, allo scopo di lucrare retribuzioni, posponga la proposizione del giudizio) e dall’altro della più recente applicazione giurisprudenziale in materia di determinazione del danno, che, alle retribuzioni maturate medio tempore dal prestatore impone di detrarre l’aliunde perceptum (cioè quanto effettivamente percepito dal lavoratore nelle more del giudizio) nonché, in alcuni casi, anche l’aliunde percipiendum (cioè quanto lo stesso avrebbe potuto percepire utilizzando la normale diligenza nella ricerca di un nuovo impiego).
In definitiva, osservano correttamente i giudici costituzionali, la norma impugnata risulta nell’insieme adeguata a realizzare un equilibrato contemperamento di interessi contrapposti, garantendo al lavoratore la conversione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è sempre e comunque riconosciuta, mentre al datore di lavoro assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data di interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto, non facendo ricadere su quest’ultimo il maggior onere derivante dai tempi della giustizia.
Peraltro, come pure evidenziato nella sentenza in commento, neppure fondata sarebbe l’eccezione secondo cui, con l’introduzione di una simile indennità forfettaria il datore di lavoro sarebbe indotto a persistere nell’inadempimento, atteso che – concluso il processo – sullo stesso graverebbe comunque l’onere di riammettere in servizio il dipendente e di corrispondergli, in ogni caso, le mensilità maturate a decorrere dalla sentenza di conversione del rapporto, secondo le regole ordinarie.
Anche con riferimento alla presunta incostituzionalità del comma 6 dell’art. 32 del d.lgs. n. 183/2010, i giudici della Consulta hanno evidenziato come la ragionevolezza della previsione che riduce alla metà il limite superiore dell’indennità prevista dalla medesima disposizione “trae alimento dal favor del legislatore per percorsi di assorbimento del personale precario disciplinati dall’autonomia collettiva”, confermandone così la piena legittimità.
Infine, quanto alla corretta interpretazione della previsione secondo cui la disciplina in commento troverebbe applicazione per tutti i giudizi pendenti, la Corte – dirimendo ogni dubbio – precisa come tale disposizione debba intendersi nel senso che le nuove disposizioni in materia di determinazione del danno dei contratti a termine vadano applicate a tutti i giudizi in corso, tanto nel merito, quanto in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato.