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La Consulta si esprime sulle conseguenze dell’illegittimità del licenziamento comminato per motivi economici

25 Giugno 2021

L’art. 18, 7 ° comma, dello Statuto dei Lavoratori (come modificato dalla Riforma Fornero) stabilisce che nel caso in cui sia accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice “può” applicare la disciplina di cui al comma 4° della medesima norma, ovvero la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento, nei confronti del lavoratore, di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e, comunque, nel limite massimo di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

La circostanza che il Legislatore abbia adoperato l’espressione “può” (non prevedendo, quindi, un automatico diritto del lavoratore alla tutela reintegratoria) ha suscitato alcune perplessità posto che, mentre la manifesta insussistenza del fatto che dà luogo al licenziamento per giustificato motivo soggettivo determina senz’altro la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato (secondo le previsioni del 4° comma dell’art. 18), nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo la scelta tra la reintegra del lavoratore e la corresponsione di un’indennità è, invece, rimessa alla discrezionalità del giudice.

Tale considerazione ha indotto il Tribunale di Ravenna a sollevare la questione di legittimità costituzionale sull’art.18 dello Statuto dei Lavoratori nella parte in cui prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il lavoratore in mancanza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

La Consulta, nella camera di consiglio del 24 febbraio u.s., si è espressa sul punto, affermando che non è ragionevole, nel caso di manifesta insussistenza del fatto che dà origine al licenziamento (sia per motivi disciplinari, sia per motivi economici) prevedere una disparità di trattamento.

Non è la prima volta che i giudici della Corte Costituzionale intervengono sull’apparato normativo relativo alle tutele da applicare in caso di licenziamento illegittimo.

Si rammenta, infatti, che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (sulle tutele crescenti) nella parte in cui, con riferimento al caso di insussistenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, determinava l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore illegittimamente licenziato solo sulla base dell’anzianità di servizio e non anche con riguardo ad altri criteri (cfr. news del 12 novembre 2018).

Analogamente, con la sentenza n. 150/2020, la Consulta – mostrando ancora una volta di non ritenere idoneo il criterio di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria ancorata alla sola anzianità di servizio – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del citato decreto n. 23/2015 nella parte in cui prevedeva, nell’ipotesi di licenziamento intimato in violazione dei requisiti di motivazione e/o di procedura, la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio (cfr news del 30 giugno 2020).

In tutti i casi sopra evidenziati i giudici costituzionali hanno voluto, evidentemente, rafforzare le tutele previste per i lavoratori, come confermato anche con la pronunzia in commento, di cui – tuttavia – non si conoscono ancora le motivazioni, che saranno depositate nelle prossime settimane in virtù della quali seguiranno ulteriori riflessioni in merito.

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