10 Novembre 2023
Può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore, di permessi ex lege n. 104 del 1992 in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso.
Così ha deciso la Corte di cassazione, (sentenza n. 17993/2023), con la quale gli Ermellini tornano ad affrontare il tema dell’abuso dei permessi in questione e delle conseguenze dello stesso.
La giurisprudenza, da tempo, sta tentando di porre un freno al ricorso improprio a tale tipologia di congedo che, introdotto dalla normativa per la legittima tutela dei portatori di handicap gravi, purtroppo, in alcuni casi, viene richiesto unicamente per il soddisfacimento di esigenze personali.
Così, con la sentenza in commento, i giudici della Suprema Corte, pur confermando, nella fattispecie in esame, la illegittimità del licenziamento comminato a un lavoratore, in ragione del fatto che nei precedenti giudizi di merito era stata accertata l’effettiva assistenza prestata al familiare disabile, hanno, tuttavia, formulato alcune interessanti considerazioni sulle caratteristiche dell’uso distorto di tale congedo.
In particolare, la Corte ha sottolineato che, in coerenza con la “ratio” del beneficio in commento, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile.
Difatti, precisano i giudici di legittimità, «la norma non consente al lavoratore di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui è preordinata atteso che il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Pertanto, ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto».
Per di più la Corte sottolinea che la condotta del lavoratore che abusi dei “permessi 104” non solo può essere ricondotta a una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro ma costituisce un abuso anche nei confronti dell’ente previdenziale che, come noto, sostiene un costo affinchè le giornate di permesso siano coperte dalla relativa indennità.
In definitiva la Corte sottolinea la gravità dell’abuso commesso in caso di utilizzo improprio, ponedo l’accento sulla relazione causale diretta che deve sussistere tra la richiesta del permesso e l’assistenza al disabile ed escludendo che la “ratio” della norma ne consenta l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza.
Che i permessi “104” non abbiano una funzione compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal lavoratore per l’assistenza prestata lo ha ribadito la Cassazione in più occasioni (cfr. Cass. n. 1394/2020; Cass. n. 1529/2019; Cass. n. 8310/2019; Cass. n. 17968/2016; Cass. n. 9217/2016; Cass. n. 8784/2015).
Precisamente, con la pronunzia n. 23891/2018, i giudici di legittimità hanno chiarito che il concetto di “assistenza” – seppure sia da intendersi in senso ampio (potendo consistere anche nello svolgimento di incombenze di carattere amministrativo, pratico o di qualsiasi genere) – non può in ogni caso prescindere dalla sussistenza di una relazione causale diretta con l’interesse del familiare assistito. Tali considerazioni, dunque, sgombrano il campo da ogni dubbio circa la possibilità dei dipendenti di poter validamente utilizzare il congedo in questione per reintegrare le proprie energie psico-fisiche dalla fatica e dall’impegno necessari all’assistenza dei familiari invalidi, atteso che al soddisfacimento di tali esigenze sono preordinati dalla legge altri istituti.