22 Luglio 2016
Recentemente, la Suprema Corte – con l’ordinanza n. 11755/2016 – è tornata nuovamente ad occuparsi di un tema sul quale è spesso intervenuta negli ultimi anni, vale a dire se il tempo di vestizione e svestizione del lavoratore rientri nell’orario di lavoro e, come tale, vada retribuito.
Anche nell’occasione, la Corte conferma il proprio ormai consolidato orientamento in proposito, ribadendo sostanzialmente i principi espressi nelle precedenti pronunce sul tema (di cui vi è un’ampia rassegna), ivi compresa la recente sentenza n. 1352/2016, che – sia pur non direttamente richiamata – risulta tuttavia ampiamente citata nell’ordinanza in esame.
Ed invero, i principi ivi espressi sono i medesimi ormai costantemente ribaditi da circa un decennio dalla Suprema Corte in materia, confermando ancora una volta i Supremi Giudici che “il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba pertanto essere retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa…”.
Nella fattispecie, un infermiere di un ospedale chiedeva la condanna della ASP al pagamento dei 20 minuti giornalieri asseritamente impiegati per indossare e dismettere la divisa di lavoro in tutti i turni di servizio effettuati negli ultimi cinque anni di lavoro.
Il Tribunale rigettava la domanda e così pure la Corte d’Appello successivamente adita. Il lavoratore ricorreva pertanto per la cassazione di tale ultima pronuncia, risultando tuttavia nuovamente soccombente.
In particolare, la Suprema Corte – pur dando atto dell’inammissibilità del ricorso – entra ugualmente nel merito della questione sottoposta al suo esame, cogliendo l’occasione per ribadire i concetti sul punto già espressi in oltre un decennio di pronunce sul tema.
E così, gli Ermellini – richiamando i propri precedenti in materia – evidenziano che la regola fissata dall’art. 3, R.D.L. 692/23, a mente della quale “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa”, non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba pertanto essere retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne regolamenti il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Tale regola, peraltro, secondo la Suprema Corte non è superata dalla disciplina contenuta nel d. lgs. 66/03, attuativo delle direttive comunitarie in materia di orario di lavoro, e si pone in senso conforme alle statuizioni della giurisprudenza comunitaria.
Ribadisce la Corte, pertanto, come – al di là dell’ipotesi in cui la vestizione di una divisa da lavoro costituisca operazione strettamente necessaria ed obbligatoria per lo svolgimento dell’attività lavorativa – il cd. tempo tuta costituisca orario di lavoro solo quando sia etero-diretto.
Viceversa, in difetto di direttive specifiche da parte del datore di lavoro, l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale e, in quanto tale, non dà luogo ad un’autonoma retribuzione.
Nel caso di specie, i Supremi Giudici rilevano come la Corte territoriale avesse debitamente verificato che l’infermiere era effettivamente tenuto ad indossare la divisa nel luogo e con le modalità indicate dal datore di lavoro, ma che non risultasse in alcun modo dimostrato che gli fosse richiesto di anticipare l’ingresso in servizio e di posticiparne l’uscita al fine di indossare gli abiti da lavoro, anzi rilevandosi come le direttive aziendali si limitassero ad imporre ai lavoratori di indossare la divisa successivamente all’entrata ed a dismetterla prima dell’uscita dal servizio.
In difetto di tale prova, il tempo tuta risultava essere stato regolarmente retribuito in quanto collocato all’interno dell’orario di servizio, con conseguente rigetto della pretesa risarcitoria.
Alla luce di quanto sopra, in assenza di modifiche all’orientamento in precedenza espresso, restano pertanto attuali le indicazioni a suo tempo rese dallo scrivente in materia, rilevandosi ancora una volta l’utilità e l’opportunità di accordi volti a regolamentare il tempo di vestizione, impedendone in tal modo un’eccessiva ed ingiustificata dilatazione da parte dei lavoratori, a detrimento dell’attività lavorativa.