12 Gennaio 2016
Manca una fattispecie incriminatrice autonoma, ma questo (invero non trascurabile) particolare non ha impedito alla Suprema Corte di affermare in una recente pronuncia l’esistenza del reato cd. di mobbing.
Ma procediamo con ordine.
Il caso riguarda un cardiochirurgo ospedaliero, con qualifica di aiuto, che aveva denunciato il proprio direttore per le azioni discriminatorie perpetrate in suo danno, per il demansionamento patito, nonché per lo svilimento e l’umiliazione alla propria professionalità subite.
Il Giudice dell’udienza preliminare, tuttavia, dichiarava il non luogo a procedere nei confronti dell’imputato, non ravvisando i reati contestati di abuso d’ufficio e maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Ne seguiva il ricorso della parte civile alla Corte di Cassazione, che cassa la decisione del GUP, sulla scorta di interessanti motivazioni.
In particolare, tralasciando gli aspetti relativi all’abuso di ufficio, il Supremo Collegio – con la sentenza 40320/15 – evidenzia come la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, tradizionalmente concepita in un contesto familiare, è stata nel tempo estesa – ed in tale senso è l’attuale disposto normativo dell’art. 572 c.p. – anche a rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia nonché a rapporti professionali e di prestazione d’opera.
In relazione a tale ultima categoria di rapporti, secondo gli Ermellini è possibile far rientrare nella fattispecie dei maltrattamenti il cd. mobbing, da intendersi quale fenomeno costituito da plurimi atteggiamenti di un superiore verso il suo sottoposto, reiterati costantemente nel tempo e convergenti al fine di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio.
Per configurare il reato, però, non è sufficiente un generico rapporto di subordinazione/sovra ordinazione, ma deve sussistere anche il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto “di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”.
Né, peraltro, tale para-familiarità può aprioristicamente escludersi nel caso di rapporti di lavoro intercorrenti tra professionisti di elevata qualificazione (come nella fattispecie), atteso che – aggiunge la Corte – anche in questi casi può verificarsi (e anzi spesso si verifica) una forte soggezione del sottoposto al suo superiore gerarchico, in grado – proprio in forza della sua posizione di supremazia – di determinare un demansionamento del primo tale da comprometterne la posizione all’interno dell’organizzazione aziendale e il mantenimento stesso delle proprie abilità professionali, come pure di condizionarne in concreto le possibilità di carriera.
Basti pensare, al proposito, al caso – proprio quello della fattispecie in argomento – del direttore del reparto che assegni ad altri chirurghi gli interventi più importanti, ovvero privi il suo sottoposto della possibilità di effettuare interventi quale primo operatore, o consentendoglielo in maniera molto più limitata rispetto ai propri colleghi, oppure lo destini a svolgere la propria attività in sedi decentrati e meno importanti, ecc.
Ancora, afferma la Suprema Corte, il connotato della para-familiarità non può essere valutato sulla sola base del dato quantitativo delle risorse operanti in un’azienda, dovendosi viceversa verificare in concreto se ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da un rapporto di soggezione e subordinazione del sottoposto rispetto al superiore nei termini sopra descritti.
In buona sostanza, secondo gli Ermellini, se è vero che è più difficile configurare un rapporto para-familiare nell’ambito di imprese di grandi dimensioni, laddove i rapporti tra i dirigenti e i loro sottoposti tendono ad essere più spersonalizzati, occorre tuttavia prestare attenzione all’ambiente di vita lavorativo più ristretto nel quale operano i soggetti interessati, quale nel caso di specie il singolo reparto e non certo tutto l’ospedale, e verificare in concreto le dinamiche relazionali ivi intercorrenti, al fine di verificare la sussistenza o meno dello stato di soggezione di cui si è detto.
Alla luce di quanto sopra, pertanto – ed in modo ancora più deciso rispetto al passato – le condotte mobbizzanti non possono più ritenersi confinate all’ambito meramente civilistico del risarcimento del danno, acquisendo viceversa rilevanza anche penalistica, con ogni evidente conseguenza, sia pure limitatamente al solo mobbing cd. verticale, con esclusione viceversa delle ipotesi di mobbing cd. orizzontale (vale a dire tra colleghi non vincolati da un rapporto di subordinazione gerarchica) e di mobbing cd. dal basso verso l’alto (vale a dire posto in essere dai subordinati nei confronti del superiore gerarchico).
Peraltro, di ciò i datori di lavoro – in quanto responsabili dei fatti dei propri dipendenti – dovranno tenere debito conto, non potendosi escludere a priori eventuali coinvolgimenti in sede penale laddove si dovesse versare in ipotesi di concorso nel reato.