10 Maggio 2019
Con la recente sentenza n. 12365 del 9 maggio 2019, la Cassazione ha ribadito nuovamente il carattere generale della tutela indennitaria in caso di licenziamento del lavoratore, evidenziando come – di contro – la tutela reintegratoria debba essere limitata ai soli casi in cui ricorrano le condizioni previste dal legislatore (licenziamento nullo ai sensi dell’art. 1 dell’art. 18 Stat. Lav., ovvero “insussistenza del fatto contestato” o fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base dei contratti collettivi ovvero codici disciplinari applicabili”).
Tale principio, invero già affermato dalle Sezioni Unite della stessa Corte (sent. n. 30985/2017), stenta a trovare piena applicazione tra i giudici del merito, i quali tendono spesso ad un’interpretazione estensiva del comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (che prevede, come noto, la tutela reintegratoria).
E’ questo il caso esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, in cui giudici dei primi due gradi avevano giudicato illegittimo il licenziamento di un dipendente di un’industria metalmeccanica e condannato la società alla reintegra del lavoratore.
Secondo i giudici del merito, infatti, l’ipotesi contestata al lavoratore (che, durante il turno notturno, era stato sorpreso dal proprio superiore gerarchico a dormire in un luogo dello stabilimento diverso dalla sua postazione di lavoro) era da ricondurre al mero “abbandono del posto di lavoro”, punito dal ccnl con l’applicazione di una sanzione conservativa.
La società aveva pertanto presentato ricorso per la cassazione della sentenza, evidenziando come – contrariamente a quanto stabilito nelle pronunce dei primi due gradi di giudizio – il comportamento tenuto dal lavoratore non potesse essere correttamente sussunto nella fattispecie contrattuale dell’abbandono del posto di lavoro, presentando caratteristiche di maggiore gravità rispetto alla fattispecie tipizzata dalle parti sociali, atteso l’intento chiaramente fraudolento e/o elusivo posto in essere dal dipendente, emerso dall’istruttoria espletata.
Al riguardo, i giudici di legittimità, nell’esaminare la fattispecie, hanno evidenziato come solo ove il fatto contestato al lavoratore ed accertato sia “espressamene contemplato” da una previsione di fonte negoziale che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo, ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato; in difetto, dovrà invece ritenersi preclusa al giudice l’applicazione della tutela reintegratoria.
Secondo la Cassazione, infatti, la possibilità di interpretare estensivamente le clausole contrattuali “è negata, del resto, dalla lettera del comma 4 dell’art. 18 l. n. 300 del 1970, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l’eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria”.
Inoltre, sottolineano i giudici di legittimità, la possibilità di interpretazione estensiva delle clausole contrattuali da parte del giudice contrasterebbe con la “chiara ratio del nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore”.
Sulla base di tali presupposti, la Corte ha quindi cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’Appello affinché provveda ad un nuovo accertamento sulla sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, con applicazione – nel caso in cui la sanzione espulsiva adottata sia giudicata sproporzionata – della tutela indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18 Stat. Lav.