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La Cassazione interpreta il carattere di “particolare gravità” nelle condotte punibili con il licenziamento.

7 Maggio 2019

Con la sentenza n° 12102 del 2018 la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità del licenziamento irrogato da una Casa di Cura ad un medico, per aver quest’ultimo assunto un contegno offensivo nei confronti di un superiore gerarchico peraltro in presenza di colleghi, utenti e familiari.

La Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento del reclamo proposto dal medico (soccombente nella prima fase di giudizio in cui il Tribunale aveva ritenuto legittimo il provvedimento espulsivo), aveva annullato il licenziamento, ritenendo la condotta contestata al lavoratore rientrante tra quelle punibili, ai sensi del ccnl ARIS, AIOP- CIMOP per il personale medico dipendente da Case di Cura, con una sanzione conservativa e condannato la Società a reintegrare lo stesso nel proprio posto di lavoro.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la Casa di cura fondando, in particolare, le proprie doglianze sulla errata interpretazione fornita dalla Corte d’Appello dell’art. 11 lettera A) del citato ccnl applicato dalla struttura nonché dalla conseguente fuorviante applicazione delle norme di legge in materia di licenziamento.

La suddetta disposizione contrattuale prevede che “sempreché si configuri un notevole inadempimento e con il rispetto delle normative vigenti è consentito il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (…) nei casi previsti dal precedente capoverso qualora le infrazioni abbiano carattere di particolare gravità”.

Ebbene la Corte d’Appello partenopea, considerando (erroneamente) “la particolare gravità” quale elemento costitutivo della fattispecie disciplinare di cui alla citata lettera A dell’art 11 anzidetto, ha ritenuto la negligenza addebitata al medico carente di tale particolare connotazione e ricondotto, per l’effetto, la condotta dello stesso tra le ipotesi disciplinari per le quali è prevista l’applicazione di una sanzione conservativa.

Una simile ricostruzione, anche alla luce delle conclusioni a cui è giunta la Corte di Cassazione con la pronuncia in commento, risulta errata e costituisce un’applicazione fuorviante delle disposizioni introdotte dalla c.d. Riforma Fornero in materia di licenziamento.

Come noto, infatti, il nuovo art. 18, l. 300/1970, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 92/2012, “ha tenuto distinta (…) dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale (…)” (cfr.: Cass. 23669/2014).

È evidente che, laddove la lettera A) del ccnl citato fosse interpretata nel senso individuato dalla Corte d’Appello, la verifica circa l’applicazione della tutela reintegratoria – lungi dal risolversi nell’accertamento positivo o negativo del fatto – si tradurrebbe in una discrezionale valutazione del giudice circa la gravità del comportamento stesso; con buona pace dei principi sanciti dalla Riforma Fornero.

Diversamente, in coerenza con le vigenti disposizioni di legge, il “carattere di particolare gravità” a cui fa riferimento la lettera A del ccnl (disposizione, peraltro, precedente alla riforma anzidetta) non può essere considerato un elemento costitutivo dell’illecito disciplinare bensì uno strumento che consente al datore di lavoro di differenziare una identica condotta (quale ad esempio la negligenza nell’esercizio delle mansioni) in ragione di vari fattori quali il contesto in cui i fatti si svolgono, il ruolo ricoperto da chi li pone in essere, l’esperienza nel settore, i precedenti disciplinari ed altre valutazioni di carattere esclusivamente imprenditoriale.

Laddove, quindi, a seguito dell’accertamento giudiziale emerga che i parametri utilizzati dal datore di lavoro per la caratterizzazione di una condotta in termini di particolare gravità, siano ritenuti inadeguati, incongrui o non pertinenti in modo tale da rendere il provvedimento “sproporzionato”, troverà acceso la tutela indennitaria di cui al co. 5 dell’art. 18 Stat. Lav. (che, come noto, prevede il diritto del lavoratore al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) esulando dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

Sulla base di tale ragionamento i giudici di legittimità, con la pronuncia in commento, hanno definitivamente statuito che la particolare gravità richiamata dall’art. 11 attiene unicamente ad un giudizio di “proporzionalità che per giurisprudenza costante di questa Corte è fuori dall’eccezione di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato”.

Tale pronuncia rappresenta per le strutture che applicano i contratti collettivi della sanità privata un importante precedente in quanto fissa un criterio determinante nella interpretazione di una norma contrattuale la cui applicazione, sin dall’entrata in vigore della Riforma Fornero, ha generato non pochi dubbi e criticità.

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