1 Settembre 2017
La Cassazione, con la recente sentenza del 31 maggio 2017, n. 13799, si pronuncia nuovamente su una delle questioni più controverse degli ultimi anni: la qualificazione del fatto posto alla base del licenziamento.
La sentenza in commento tratta il caso di una lavoratrice licenziata a causa di alcuni commenti postati su facebook, ritenuti diffamatori dal datore di lavoro.
Le ragioni del datore di lavoro, dopo essere state accolte dal Tribunale di primo grado, sono state respinte dalla Corte d’Appello, che ha addirittura disposto la reintegrazione della lavoratrice, considerando il fatto mancante del carattere di illiceità.
Arrivati in Cassazione, gli Ermellini hanno confermato la sentenza di Appello, riproponendo nuovamente la teoria della prevalenza del fatto giuridico rispetto al fatto materiale.
Negli ultimi anni la questione è stata oggetto di ampio confronto giurisprudenziale e dottrinale, come abbiamo più volte dato conto (si vedano News del 28/11/2014, News del 06/06/2014 e Appunti del 24 novembre 2015).
Partiamo dal dato normativo dell’art. 18 c. 4 (così come riformato dalla “Fornero”): «il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato… annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro».
Seppure la norma possa apparire – prima facie – di agevole interpretazione, essa ha generato un accesissimo dibattito tra chi sostiene che il fatto debba essere ritenuto insussistente quando semplicemente non è mai accaduto nella realtà (fatto materiale) (Cass. 23669/14) e chi invece (cfr. Cass. 20540/15 e Cass. 18418/16) ritiene che debba essere ritenuto insussistente quando, seppur pacificamente avvenuto e accertato nelle modalità, non abbia carattere di illiceità (fatto giuridico).
Tale ultima interpretazione, seppur forse maggioritaria, finirebbe per vanificare la novella dell’art. 18 così come riformato dalla l. 92/12 (riforma Fornero), ripristinando di fatto la situazione precedente e restituendo al giudice l’ampia autonomia che la riforma intendeva invece limitare.
Nel testo riformato, d’altra parte, non è contenuto alcun riferimento che possa in qualche modo far ritenere che la teoria del fatto giuridico debba prevalere rispetto al fatto materiale.
Anzi, il legislatore del 2015 ha fornito una vera e propria interpretazione autentica della fattispecie, inserendo all’interno del nuovo dato normativo (art. 3 d.lgs. 23/15, valido, come noto, solo per gli assunti successivamente al 7 marzo 2015) la seguente definizione: «Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente provata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro…».
Una simile formulazione della norma era finalizzata proprio a contrastare l’interpretazione giurisprudenziale relativa al fatto giuridico (come quella in commento) e ad escludere categoricamente simili valutazioni soggettive da parte del giudice; stupisce pertanto che ancora oggi la giurisprudenza continui a disattendere le indicazioni del legislatore, così determinando una differenza ancor più marcata tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.