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La Cassazione apre al licenziamento del lavoratore che rifiuta il part‐time

21 Novembre 2014

La sentenza della Corte di Cassazione n. 14319 del 6 giugno 2013 ha accertato la possibilità del datore di lavoro di esperire l’obbligo di repechage anche proponendo al lavoratore la conversione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale; in tal caso, il rifiuto del lavoratore legittimerebbe il licenziamento, costituendo prova dell’impossibilità di adibire ad altre mansioni (ferma restando la necessità, tuttavia, della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo).

La suprema Corte, nel pronunciarsi, ha dovuto tener conto di vari fattori, primo tra tutti la contrapposizione tra l’art. 5 dlgs. 61/00  (nel quale si considera illegittimo il licenziamento per il rifiuto del lavoratore di convertire il proprio contratto da tempo pieno a part-time) e la forte esigenza di natura organizzativa del datore di lavoro di ridurre l’attività e quindi effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
La grande innovazione della sentenza consiste nella diversa considerazione del rifiuto del lavoratore a convertire il proprio rapporto di lavoro; difatti se questo è addotto dal datore di lavoro come unico motivo di licenziamento, esso risulterà (ai sensi del predetto art. 5 dlgs. 61/00) sempre illegittimo; al contrario se tale rifiuto è preceduto da altri elementi, già di per sé idonei a giustificare il licenziamento, questo può essere considerato come ulteriore prova dell’impossibilità di repechage. Ciò non deve tuttavia far ritenere che la Corte abbia in qualche modo derogato al divieto imposto dall’art. 5 dlgs. 61/00, poiché il vincolo contenuto in questa norma non costituisce, come visto sopra, il motivo unico del licenziamento.

Altro forte carattere innovativo della sentenza è nella parte in cui prevede  che il datore di lavoro possa dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il proprio livello professionale anche mediante presunzioni diverse (e non necessariamente solo fornendo la prova di non aver operato nuove assunzioni  e dimostrando la completezza del proprio organico).
La Corte, confermando un orientamento consolidato, ha inoltre riaffermato che l’obbligo di repechage per il datore di lavoro deve essere attuato non solo con riferimento alle mansioni equivalenti, ma anche con riferimento alle mansioni inferiori (c.d. patto di dequalificazione); ciò in quanto un siffatto obbligo non può rappresentare un eccessivo aggravio economico per il datore di lavoro, che non è quindi tenuto a creare nuove posizioni lavorative per adempiere a tale dovere.

La fattispecie trattata nella sentenza riguarda il caso di una lavoratrice licenziata dopo la chiusura dello stabilimento nel quale era impiegata a tempo pieno a causa dell’esigenza di ridurre l’attività aziendale nel settore amministrativo; il datore di lavoro, per evitare il licenziamento, aveva proposto alla lavoratrice un lavoro analogo a quello sinora svolto, in una sede differente e con una riduzione del tempo di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, ed a seguito del suo rifiuto, è stato intimato il licenziamento.
La Corte, per le ragioni sopra indicate, ha ritenuto il licenziamento legittimo, considerando anche adempiuto l’obbligo di tentativo di repechage del datore di lavoro.

La c.d. riforma Fornero (l. 92/2012) ha apportato una sostanziale modifica alla tutela prevista in casi analoghi nei confronti del lavoratore, prevedendo infatti la reintegra del lavoratore licenziato solamente quando si accerti la “manifesta insussistenza del fatto posto al base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo“, riservando invece una tutela meramente indennitaria negli altri casi di illegittimità del licenziamento.
Si occuperà della materia anche l’imminente riforma del lavoro del governo Renzi  (il c.d. job act), che intende modificare la portata dell’art. 2103 c.c. nella parte in cui prevede una rigida equivalenza delle mansioni assegnate ad ogni lavoratore, recependo quindi il consolidato orientamento giurisprudenziale che ritiene legittimo il demansionamento allorquando sia finalizzato ad evitare il licenziamento, nei casi di riorganizzazione o conversione aziendale, sulla base di parametri oggettivi e probabilmente modificando l’art. 42 dlgs. 81/08 (il quale prevede la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori per inidoneità fisica sopravvenuta mantenendo la precedente retribuzione).

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