21 Gennaio 2020
Sono state pubblicate nei giorni scorsi le motivazioni mediante le quali la Corte d’Appello di Napoli – con ordinanza del 18 settembre 2019 – ha sottoposto al vaglio della Corte costituzionale (e, per la verità, con altro provvedimento, anche della Corte di Giustizia Europea, con motivazione analoga a quella assunta dal Tribunale di Milano lo scorso 5 agosto [cfr. precedente news del 2 settembre [link]) il sistema sanzionatorio previsto dalla normativa sul contratto a tutele crescenti, in caso di licenziamenti collettivi intimati in violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, l. 223/91.
Come noto, i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015 beneficiano, in caso di recesso all’esito di una procedura di licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta, della sola tutela indennitaria prevista dall’art. 10, d.lgs. 23/15 (nella fattispecie, ratione temporis da 4 a 24 mensilità) mentre, nei confronti dei lavoratori assunti in epoca precedente a tale data, trova applicazione, a fronte della medesima violazione, la tutela reintegratoria attenuata (reintegra con risarcimento nei limiti di 12 mensilità).
L’ordinanza in commento trae origine dalla controversia per la procedura di licenziamento svolta da una società, nell’ambito della quale ad una lavoratrice, assunta con contratto a tutele crescenti, che aveva impugnato il recesso per violazione dei criteri di scelta, era stata riconosciuta la sola tutela indennitaria.
In proposito, il Collegio remittente ha ritenuto irragionevole che “nell’ambito della stessa procedura di licenziamento collettivo, che si svolga simultaneamente nei confronti di lavoratori assunti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 e lavoratori assunti con analoghi contratti precedentemente a tale data, le norme censurate introducono, in presenza di una identica violazione dell’art. 5, l. 223/91 (e quindi per violazione dei criteri di scelta afferenti ai medesimi licenziamenti), un ingiustificato differente regime sanzionatorio sotto un duplice profilo”.
Sotto il profilo sostanziale, nell’ordinanza in commento si evidenzia l’irragionevolezza del regime di tutela applicabile ai lavoratori post Jobs Act che, rispetto al vincolo imposto dalla carta costituzionale di tutela del rapporto di lavoro, sarebbe inadeguato “per efficacia deterrente e capacità di ristorare il danno effettivo subito dal lavoratore a fronte dell’illegittima risoluzione del contratto di lavoro”; ciò anche sotto l’aspetto previdenziale, non essendo prevista la ricostituzione del rapporto di lavoro, così determinando una disparità di trattamento fra identiche violazioni relative a fattispecie del tutto omogenee, il cui unico discrimine è costituito dalla data di assunzione del lavoratore.
Peraltro, anche con riferimento alla quantificazione dell’indennità risarcitoria eventualmente dovuta, a parere del Collegio, i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 subirebbero un’ulteriore discriminazione atteso che, mentre il parametro di riferimento del primo modello ripristinatorio (ante 7 marzo 2015) è rappresentato dalla “retribuzione globale di fatto”, nel coesistente modello indennitario (post 7 marzo 2015), è costituito dalla “retribuzione utile ai fini del TFR” che l’art. 2120 cc demanda, quanto alla individuazione delle voci computabili ai fini di tale istituto, alla contrattazione collettiva di settore.
La sostanziale attenuazione della misura sanzionatoria sopra descritta risulterebbe, altresì aggravata, a parere della Corte territoriale, dall’inapplicabilità, ai licenziamenti (anche collettivi) di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e dunque con contratto a tutele crescenti, del rito sommario previsto dagli artt. 47 e ss., l. 92/12 (cd rito Fornero) con conseguente allungamento dei tempi necessari a ristorare il lavoratore privato ingiustamente del posto di lavoro.
Nel mentre si attende di conoscere le determinazioni della Corte Costituzionale in ordine ai profili censurati nell’ordinanza in commento, si rileva come, contrariamente a quanto evidenziato dal Collegio partenopeo, la tutela riservata ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti non possa in alcun modo ritenersi deteriore rispetto a quella prevista per gli altri lavoratori, ciò a maggior ragione ove si consideri che a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. 87/18 (cd decreto dignità) l’indennizzo eventualmente dovuto ai lavoratori attinti da un licenziamento illegittimo è stato aumentato, quanto al minimo, da 4 a 6 mensilità, quanto al massimo, da 24 a 36 mensilità.
A ciò si aggiunga che a seguito della sentenza n. 194/18 della Corte Costituzionale [si cfr. link], per i licenziamenti intervenuti successivamente al 31 luglio 2018, il Giudice, nella quantificazione di tale indennità risarcitoria non è più vincolato a riconoscere “due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” ma, nel rispetto dell’intervallo tra l’ammontare minimo (6 mensilità) e massimo (36 mensilità) può discrezionalmente tenere conto, oltre che dell’anzianità di servizio (che in ogni caso assume valore rilevante), anche degli ulteriori criteri “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.
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