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Investigazioni sui furbetti del cartellino e licenziamento.

9 Aprile 2019

Ormai da diversi anni è aumentata la sensibilità sociale verso i cd. furbetti del cartellino, vale a dire quei lavoratori che, con diverse modalità, eludono i controlli relativi alla presenza in servizio, al fine di lucrare indebitamente la corresponsione della retribuzione a fronte di un’inesistente prestazione lavorativa.

Costoro, sfruttando connivenze dei colleghi o, più semplicemente, la difficoltà per il datore di lavoro di verificare costantemente il rispetto degli orari di lavoro, si sottraggono all’adempimento dell’obbligo lavorativo, allontanandosi – talvolta per molto tempo e reiteratamente – dal luogo di lavoro, pur risultando formalmente presenti.

È il caso, ad esempio, di un dipendente al quale, a seguito di indagine investigativa disposta dal datore di lavoro al di fuori dei locali aziendali, veniva contestato di essersi ripetutamente allontanato dal posto di lavoro durante l’orario di servizio (in tredici giornate comprese tra il 17 settembre 2007 il 26 ottobre 2007), rimanendo assente per diverso tempo – da 15 minuti a più di un’ora – senza timbrare il badge in uscita e facendo così risultare la regolare presenza in servizio.

Il lavoratore impugnava il conseguente licenziamento, affermandone l’illegittimità per essere stato comminato a distanza di mesi dagli eventi, nonchè per essere fondato sulle risultanze di un’attività investigativa illegittima per violazione degli arti. 2, 3 e 4 L. 300/70 (vale a dire le norme sul controllo dell’attività lavorativa e sul divieto di controllo a distanza della medesima).

Ebbene, entrambe le doglianze del ricorrente vengono rigettate.

Ed invero, la Suprema Corte (Cass. 6174/2019) – a conferma della correttezza della sentenza emessa dalla Corte d’Appello in merito – ribadisce i suoi precedenti in materia, statuendo che la tempestività della contestazione deve essere valutata partendo dal momento dell’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi, cosicché risultava irrilevante che i fatti si riferissero ad un periodo precedente a quello in cui il datore di lavoro ne aveva avuto contezza, sul punto acquistando rilievo anche la complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati.

Nel caso di specie, il datore di lavoro era venuto a conoscenza dei fatti solo a seguito della trasmissione della relazione investigativa dal medesimo commissionata, operando nei giorni seguenti (e quindi in modo tempestivo) la contestazione disciplinare.

Quanto alla seconda doglianza del lavoratore, anche nella circostanza gli Ermellini confermano la pronuncia della Corte territoriale, richiamando il principio anche recentemente espresso “secondo cui i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 st. lav.”.

Nel caso di specie, afferma la Suprema Corte, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro nonostante la timbratura del badge, condotta che determinava una “situazione apparente” al fine di indurre in errore il datore di lavoro sulla sua presenza al lavoro.

Contegno, questo, che certamente integra la nozione di giusta causa di recesso, considerato l’elemento intenzionale legato all’inadempimento dell’attività lavorativa, la sistematicità e la circostanza che la condotta fosse stata riscontrata nel 100% delle occasioni in cui il ricorrente era stato sottoposto a controllo.

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