12 Maggio 2015
Con la sentenza n. 5117 del 20 marzo 2015, la Corte di Cassazione chiarisce in modo definitivo ed in un’ottica spiccatamente più garantista per la posizione datoriale, la questione concernente l’esatto “computo dei termini” previsti dal legislatore con le novelle del 2010 (c.d. Collegato Lavoro) e del 2012 (c.d. Riforma Fornero), ai fini della decadenza dell’impugnativa di licenziamento.
Prima di esaminare l’approdo giurisprudenziale cui sono giunti con la sentenza in commento i giudici della Cassazione, vale la pena rammentare come la legge 15 luglio 1966, n. 604, relativa ai “licenziamenti individuali” sia stata modificata dall’art. 32 della legge 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro), nel senso di tutelare maggiormente l’interesse della parte datoriale alla certezza del rapporto di lavoro con i propri dipendenti anche in fase di cessazione dello stesso, attraverso una maggiore celerità nella proposizione della eventuale azione giudiziaria.
Ed infatti, come noto, fermo restando il termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è stata prevista l’inefficacia di quest’ultima se – entro i successivi 270 giorni (oggi ridotti a 180) – non faccia seguito il deposito del ricorso nella sede giudiziaria competente.
Con tale intervento normativo, l’impugnativa di licenziamento soggiace, quindi, ad un doppio termine decadenziale, ovverosia, fino ad un massimo di 60 giorni dal licenziamento per l’impugnazione stragiudiziale dello stesso e fino ad un massimo di 270 giorni (ridotti ora a 180 a seguito della Riforma Fornero) successivi al primo termine di impugnazione, per la proposizione del conseguente ricorso giudiziale.
Ebbene, sin dall’origine della suddetta disposizione sono sorti ondivaghi contrasti interpretativi circa il significato e la portata da attribuire proprio alla sopra richiamata locuzione “successivi al primo termine di impugnazione”.
Ed invero, con tale precisazione il legislatore non era stato in grado tuttavia di chiarire in modo fermo se per la decorrenza del termine decandenziale di 270 giorni (ora 180) per il tempestivo deposito del ricorso giudiziario, si dovesse considerare il 61° giorno dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, ovvero, quello immediatamente successivo all’effettiva data di spedizione della lettera di impugnazione.
E’ proprio con la sentenza del 20 marzo 2015 in commento che la Cassazione offrendo un’interpretazione dell’impianto normativo in questione del tutto in linea con il dato testuale dello stesso nonchè con quell’esigenza di certezza per la parte datoriale prevista dalla nuova formulazione dell’art. 32 del Collegato Lavoro (rimasta però, di fatto, lettera morta nelle aule di tribunale), ha posto fine a tali dubbi interpretativi stabilendo come la questione debba essere risolta alla luce della seconda delle due ipotesi sopra evidenziate.
Ed infatti, secondo gli Ermellini la lettera della disposizione contenuta nel comma 1 del citato art. 32 che commina l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale non seguita dalla tempestiva azione giudiziaria, dimostra come “dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo”.
Peraltro, l’esigenza di celerità volta a tutelare gli interessi datoriali in merito alla certezza del rapporto, ha portato i giudici a precisare che il suddetto termine debba appunto decorrere dalla data di spedizione della lettera di impugnazione e non già dal suo ricevimento.
In conclusione, i giudici di Legittimità hanno definitivamente stabilito la definitiva interpretazione da dare alla sopra richiamata normativa, optando per la validità, come dies a quo per il calcolo dei “successivi” 270 giorni per il deposito del ricorso (ora 180), quello della data in è stata effettivamente spedita la lettera di impugnazione stragiudiziale del licenziamento intimato e, non già, il giorno successivo allo spirare dei 60 giorni di tempo previsti per tale l’esperimento di tale incombente.
Un simile chiarimento giurisprudenziale, pertanto, offrirà la possibilità di contestare in modo risolutorio e con indubbio successo, l’eventuale inerzia del lavoratore che successivamente all’intimazione di un provvedimento espulsivo non si attivi, nei termini sopra chiariti, per il tempestivo deposito dell’eventuale ricorso giudiziario.