26 Aprile 2022
Torna di attualità il tema degli “accomodamenti ragionevoli” che il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità alla mansione del lavoratore disabile.
La questione è stata recentemente esaminata dalla Corte di giustizia europea con la sentenza del 10 febbraio scorso, emessa nella causa C- 485/20.
Il caso affrontato dal giudice comunitario attiene ad una controversia sorta in Belgio nel novembre 2016 tra la società che gestisce il personale ferroviario ed un lavoratore che era stato assunto con contratto di tirocinio come manutentore.
Nel corso del rapporto, era stata diagnosticata al lavoratore una patologia cardiaca che aveva richiesto l’applicazione di un peacemaker, rilevatosi tuttavia sensibile ai campi elettromagnetici emessi dalle linee ferroviarie.
In conseguenza di ciò, quest’ultimo è stato prima riconosciuto disabile dal servizio pubblico, successivamente dichiarato inidoneo a esercitare le funzioni per le quali era stato assunto e, infine, licenziato.
Impugnato il recesso dinanzi all’autorità giudiziaria, il Tribunale adito ha rilevato che le condizioni di salute del ricorrente consentivano di qualificare quest’ultimo “disabile” ai sensi della normativa che recepisce nel diritto belga la direttiva sulla parità di trattamento (n. 2000/78) in materia di occupazione nella parte in cui (art. 5) prevede – in caso di licenziamento – il ricorso a “soluzioni ragionevoli” e sulla base di questo presupposto ha quindi investito della questione la Corte di giustizia europea.
In buona sostanza, viene chiesto alla Corte di chiarire se l’art. 5 della citata direttiva debba essere interpretato nel senso che la nozione di “soluzioni ragionevoli per i disabili” prevista proprio da tale disposizione “implica che un lavoratore, (…), il quale, a causa della sua disabilità, sia stato dichiarato inidoneo ad esercitare le funzioni essenziali del posto da lui occupato, sia assegnato ad un altro posto per il quale dispone delle competenze, delle capacità e delle disponibilità richieste”.
Nel dare risposta a tale quesito il giudice comunitario compie una pregevole rilettura sistematica di tutta la direttiva sulla parità di trattamento, giungendo ad individuare in particolar modo quelle che possono essere ritenute le “misure appropriate” che il datore di lavoro sarebbe chiamato ad adottare “per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione”.
In tale contesto, evidenzia la Corte, assumono rilievo le “misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo messi di formazione o di inquadramento”.
Fermi i principi sopra espressi, la Corte – ed è questo il punto di maggior rilievo – non omette tuttavia di sottolineare come sia lo stesso art. 5 della direttiva 2000/78 a prevedere che il datore di lavoro non possa essere obbligato ad adottare soluzioni che, sebbene diretti alla tutela del lavoratore disabile, gli impongano comunque un “onere sproporzionato”.
Sempre secondo la Corte, per determinare se le misure in questione diano luogo a oneri sproporzionati, è necessario tener conto “dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o sovvenzioni”
Alla luce di tali considerazioni, la Corte conclude affermando come la nozione di “soluzioni ragionevoli” per i lavoratori disabili (di cui all’art. 5 della direttiva sopra citata) debba essere necessariamente interpretata nel senso di ritenere possibile destinare un lavoratore disabile – dichiarato inidoneo ad esercitare le funzioni per le quali è stato assunto – ad un altro posto di lavoro per il quale dispone delle competenze, delle capacità e delle disponibilità richiesta, sempreché una tale misura “non imponga al datore di lavoro un onere sproporzionato”.