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Indennizzabilità da parte dell’Inail e colpa del datore di lavoro

25 Maggio 2012

Con la recente sentenza n. 6002 del 17 aprile 2012, la Suprema Corte è nuovamente intervenuta sul tema delle condizioni necessarie affinché sussista la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio.
Nel caso esaminato, in particolare, la Cassazione ha avuto modo di confermare la decisione di merito della Corte d’Appello di Venezia che aveva rigettato la domanda di un infermiere (dipendente di una Asl) di ottenere, oltre all’indennità Inail, un ulteriore risarcimento a titolo di danno differenziale per l’infortunio occorsogli mentre tentava di scavalcare un cancello al fine di raggiungere un paziente affetto da grave disturbo psicotico che era scappato da una struttura sanitaria.
La Suprema Corte, infatti, ha (condivisibilmente) distinto i presupposti che danno diritto a godere dell’indennità assicurativa da parte dell’Inail, da quelle che, invece, possono motivare il sorgere dell’eventuale obbligo risarcitorio aggiuntivo da parte del datore di lavoro.
Al riguardo, si rammenta che – ai sensi dell’art. 10 d.p.r. 1124/1965 – il datore di lavoro, mediante l’assicurazione dei propri dipendenti all’Inail, viene esonerato dalla responsabilità civile derivante dagli infortuni sul lavoro, salvo che l’infortunio o la malattia professionale siano derivati da un reato perseguibile d’ufficio.
Solo in tal caso, pertanto, il lavoratore può agire nei confronti del datore di lavoro al fine di ottenere il c.d. risarcimento del danno differenziale (e cioè la differenza tra il danno effettivamente patito e l’indennità riconosciuta dall’Inail); nella medesima ipotesi, inoltre, l’Inail può altresì esercitare nei confronti del datore di lavoro la c.d. azione di regresso, chiedendo a quest’ultimo la ripetizione di quanto pagato.
In aggiunta a quanto sopra, inoltre, la giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che il datore di lavoro è altresì tenuto a risarcire i lavoratori di tutti i danni contemplati dal vigente ordinamento, diversi tuttavia da quelli assicurati presso l’Inail come, ad esempio, il c.d. danno morale, e cioè il danno derivante da “il turbamento dell’animo” e “il dolore intimo” sofferti a causa della condotta illegittima del datore di lavoro.
Alcuni dubbi interpretativi sono sorti, in passato, con riferimento al c.d. danno biologico, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità fisica della persona, indipendentemente alle eventuali conseguenze patrimoniali della stessa.
Tale voce di danno, infatti, era originariamente esclusa dalla tutela assicurativa dell’Inail e vi è stata introdotta solamente ad opera del d.lgs. 38/2000.
Al proposito, la Suprema Corte, mediante la pronuncia in esame, ha avuto modo di chiarire che il legislatore, attraverso l’emanazione del citato decreto, ha inteso provvedere ad una ulteriore “riduzione dell’area della responsabilità civile del datore di lavoro”.
Di conseguenza, allo stato, può ritenersi che l’esonero previsto dall’art. 10 cit. riguardi anche l’eventuale danno biologico lamentato dal lavoratore a causa di infortuni avvenuti successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 38/2000.
Ciò posto, come sopra accennato, la Cassazione, con la sentenza n. 6002/2012, ha chiarito quali sono le condizioni affinché il lavoratore possa legittimamente richiedere al proprio datore di lavoro il risarcimento, oltre all’indennità Inail, delle voci di danno non “coperte” (come, ad esempio, il danno morale”).
A tal proposito la Corte opera una distinzione tra il concetto di responsabilità professionale, in base alla quale un determinato infortunio può essere o meno indennizzato dall’Inail, e la responsabilità civile che, invece, può costituire l’unica causa per la quale il datore di lavoro può essere chiamato a risarcire il danno previdenziale.
In particolare, gli Ermellini hanno chiarito che la tutela prestata dall’Inail opera anche qualora il lavoratore, in occasione di lavoro, subisca un infortunio in “conseguenza di caso fortuito, di forza maggiore o anche di colpa dello stesso lavoratore, con il solo limite dell’atto puramente arbitrario”.
Afferma, al riguardo, infatti, la giurisprudenza di legittimità che “ad escludere l’indennizzabilità del sinistro non basta l’atto colpevole del lavoratore, e cioè l’atto volontario posto in essere con imprudenza, negligenza o imperizia, ma che, motivato comunque da finalità produttive, non vale ad interrompere il nesso fra l’infortunio e l’attività lavorativa, come, invece, deve ritenersi allorché il comportamento del dipendente sia del tutto arbitrario ed abnorme, in quanto determinato da “impulsi puramente personali” (v., in tal senso, anche Cass. n. 11417/2009).
Per il sorgere, invece, della eventuale responsabilità aggiuntiva del datore di lavoro, la Cassazione non fa più ricorso al concetto di “responsabilità professionale” ma a quello, più restrittivo, di “responsabilità civile”.
In tal senso, è stato precisato che le condizioni per l’operatività della tutela assicurativa non sono sufficienti ad affermare la tutela risarcitoria aggiuntiva in favore del lavoratore, “che presuppone la responsabilità per colpa del datore di lavoro” e, cioè “che il comportamento del datore di lavoro sia qualificato da uno specifico disvalore”.
In realtà, come peraltro espressamente riconosciuto dalla Suprema Corte, la linea di demarcazione tra le due tipologie di responsabilità non è così netta, atteso che – ai sensi dell’art. 2087 c.c. – il datore di lavoro è tenuto ad adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all’esperienza e alla tecnica.
Tuttavia, da detta norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l’evento sia riferibile a sua colpa (così da ultimo Cass. n. 8710/2007), dal momento che la colpa costituisce, comunque, elemento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (v. Cass. n. 10579/2008).
Sulla base di tale principio – in forza del quale l’obbligo risarcitorio del datore di lavoro sorge esclusivamente qualora il lavoratore individui l’omissione di una specifica misura di sicurezza – la Cassazione ha ritenuto che l’infermiere in questione non avesse diritto a godere del risarcimento aggiuntivo da parte del datore di lavoro, non avendo indicato quale misura antinfortunistica il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare al fine di evitare l’infortunio.
Tale decisione appare pienamente condivisibile e coerente con il vigente sistema assicurativo, e, in particolare, con quanto disposto dall’art. 38 della Cost., ai sensi del quale le forme di assistenza privata in favore delle persone infortunate “è libera”.
In effetti, imporre al datore di lavoro un obbligo risarcitorio a prescindere dalla sussistenza di una sua – seppur minima – colpa, rappresenterebbe una forma di assistenza privata inammissibilmente obbligatoria.

 

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