7 Marzo 2014
Sovente giungono richieste in ordine a quale atteggiamento tenere da parte datoriale nel momento in cui un fatto, avente rilevanza disciplinare, sia sottoposto anche al vaglio del giudice penale, come pure quale incidenza abbia l’accertamento operato dal giudice penale in relazione al fatto contestato e/o che si intende contestare.
Al proposito – nel mentre si rappresenta l’esistenza di un’autonomia tra il procedimento disciplinare e quello penale, di talché non vi è (nell’ambito dell’impiego privato) alcuna obbligatoria sospensione del primo in funzione degli esiti del secondo – si evidenzia come la pronuncia penale nell’ambito del procedimento disciplinare conservi comunque una propria rilevanza.
Ciò tuttavia non si traduce in impunità per il dipendente che venga assolto nel giudizio penale per i fatti contestatigli disciplinarmente.
Interessante, sotto tale profilo, una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. 206/2013) – relativa al pubblico impiego, ma i cui principi generali appaiono esportabili anche nel settore privato – nella quale gli Ermellini chiariscono la questione.
Nel caso di specie, un dipendente dell’Agenzia delle Dogane veniva licenziato per una condotta in relazione alla quale era stato sottoposto a procedimento penale, conclusosi con l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”.
Il lavoratore ricorreva avverso il licenziamento, affermando che l’ottenuta assoluzione avrebbe impedito al datore di lavoro di valutare il fatto dal punto di vista disciplinare.
Il Tribunale adito, tuttavia, rigettava il ricorso, come pure la Corte d’Appello, che rilevava come non fosse preclusa al datore di lavoro la possibilità di valutare autonomamente i fatti contestati rispetto all’accertamento penale. E ciò anche sulla scorta di elementi provenienti dalle prove raccolte nell’ambito del giudizio penale.
La Corte di Cassazione adita dal lavoratore, infine, ne rigettava ancora una volta le pretese reintegratorie, introducendo una distinzione nell’ambito delle formule assolutorie utilizzate dal giudice penale.
Ed invero, afferma la Corte, mentre l’assoluzione o il proscioglimento con la formula “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso” – presupponendo un accertamento che esclude in radice la configurabilità di qualsiasi responsabilità dell’imputato in relazione al fatto ascrittogli – consentono di sostenere che tale fatto non possa assumere valenza disciplinare, lo stesso non può dirsi per l’ipotesi assolutoria con formula “perché il fatto non costituisce illecito penale”.
In tal caso, infatti, non è esclusa la materialità del fatto, né la sua riferibilità al dipendente, ma solo la sua rilevanza penale.
Ne consegue che il datore di lavoro – in forza dell’autonomia di cui sopra – ben potrà valutare la condotta ai fini disciplinari, potendo sanzionare il lavoratore anche ove il medesimo sia stato assolto con la formula in questione.