13 Novembre 2015
La Corte di Cassazione – con la recentissima sentenza n. 22150 del 29 ottobre 2015 – ha affermato che, in caso di impugnazione giudiziale di un provvedimento disciplinare di natura conservativa, il giudice deve limitarsi a convalidare oppure ad annullare la sanzione comminata al lavoratore, senza poterne modificare l’entità, e ciò finanche laddove il datore di lavoro abbia espressamente richiesto nel proprio scritto difensivo (sia pure in via subordinata) «la sostituzione della sanzione con altra meno grave ove quella irrogata fosse stata ritenuta eccessiva».
In sostanza gli Ermellini – pur ribadendo il condivisibile principio a mente del quale «la graduazione della sanzione in relazione alla gravità dell’illecito disciplinare è espressione di una discrezionalità che rientra nel più ampio potere organizzativo quale aspetto del diritto di iniziativa economica privata che l’art. 41 co. 1° Cost. riconosce all’imprenditore» – giungono a sostenere che il sindacato del giudice deve limitarsi alla verifica sia del rispetto da parte del datore di lavoro delle disposizioni legislative e contrattuali vigenti nonché del principio generale ed inderogabile di cui all’art. 2106 c.c. (secondo cui le sanzioni disciplinari devono essere proporzionate alla gravità dell’infrazione), sia della sufficienza della motivazione addotta a supporto del provvedimento applicato.
Diretto corollario di quanto sopra – secondo i giudici di legittimità – è che la violazione da parte del datore di lavoro dei principi generali sopra richiamati (accertata in sede giudiziale) «comporta l’illegittimità della sanzione disciplinare, senza che al giudice sia dato il potere di sostituirsi all’imprenditore nell’applicare altra meno grave sanzione ritenuta proporzionata all’infrazione accertata, fatto salvo il caso in cui l’imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista perciò soltanto nel ricondurre la sanzione entro tale limite».
In particolare nella pronuncia si precisa che, laddove fosse consentito al giudice di spingersi oltre la mera pronuncia di convalida o annullamento della sanzione irrogata, «ci si troverebbe innanzi all’esercizio, da parte del giudice, di un potere di sostanziale supplenza (per quanto sollecitato dallo stesso titolare del potere disciplinare) che potrebbe aprire la strada ad altre più impegnative forme di sostituzione della valutazione giudiziale a quella imprenditoriale …. Ciò snaturerebbe entrambe le posizioni, quella istituzionale del giudice (che da custode della legge si convertirebbe nel garante del proficuo governo dell’impresa grazie all’espletamento di funzioni sostanzialmente surrogatorie od arbitrali) e quella sociale dell’imprenditore (sollevato dalle proprie responsabilità in ordine al risultato economico e, più in generale, alle conseguenze delle scelte organizzative cui è chiamato)».
Peraltro, a sostegno di tale conclusione viene citata la precedente sentenza n. 15932/04, che invero non costituisce – a ben vedere – un precedente giurisprudenziale del tutto conforme a tale ultimo pronunciamento.
Infatti, gli Ermellini in tale occasione giammai avevano espressamente dichiarato che al giudice adito fosse inibita la possibilità di ridurre una sanzione conservativa ritenuta eccessiva, essendosi limitati piuttosto ad affermare il più generale principio a mente del quale «il giudice, adito dal prestatore di lavoro che lamenti l’eccessiva gravità della sanzione, non può sindacare nel merito i criteri di scelta adottati dal datore – imprenditore, ma deve limitarsi alla sufficienza della motivazione ed all’osservanza delle norme, di diritto e contrattuali …. La graduazione delle sanzioni conservative … rientra … nel potere organizzativo dell’imprenditore … In altre parole è riservato all’imprenditore … di valutare il grado di dannosità dell’indisciplina del prestatore di lavoro, spettando poi al giudice non di sostituirsi in quella valutazione ma solo di sindacarne l’eccesso di potere».
Invero la Suprema Corte, nella sentenza in esame, fa riferimento finanche al «non coincidente precedente di Cass. n. 8910/07» – sia pure al mero scopo di fornirne un’accurata critica.
In particolare con la sentenza n. 8910/07 la Suprema Corte aveva ritenuto ammissibile la riduzione ad opera del giudice dell’entità della sanzione originariamente inflitta, purché il datore di lavoro ne faccia espressa richiesta nell’atto giudiziale di costituzione, atteso che «in tal caso l’applicazione di una pena minore non sottrae autonomia all’imprenditore e realizza l’economia di un nuovo ed eventuale giudizio, avente ad oggetto la stessa».
Da quanto sopra non può farsi a meno di osservare che i giudici di legittimità abbiano del tutto omesso di chiarire come possa (o debba) atteggiarsi il datore di lavoro rispetto all’addebito disciplinare contestato al lavoratore, nelle ipotesi in cui l’effettiva sussistenza dello stesso non sia stata messa in discussione dal giudice, il quale si sia limitato ad annullare la sanzione conservativa (perché ritenuta eccessiva).
Di fronte a tale lacuna deve ritenersi ragionevole presumere che il datore dovrebbe poter provvedere ad applicare una sanzione più lieve rispetto ad un fatto il cui disvalore sotto il profilo disciplinare non è stato negato.
Tuttavia resta da chiarire, altresì, a partire da quale momento il datore di lavoro potrebbe ritenersi legittimato ad applicare una nuova sanzione in sostituzione di quella giudizialmente annullata (ossia, se già a partire dalla sentenza di primo grado, che – come noto – può essere impugnata ovvero se sia necessario attendere il passaggio in giudicato della stessa sentenza), e ciò anche al fine di evitare che lo stesso possa incorrere in decadenze.
Tale questione non è di poco conto in considerazione delle problematiche operative che – laddove l’orientamento giurisprudenziale in commento venisse definitivamente confermato – inevitabilmente deriverebbero al datore di lavoro; ciò sotto il duplice profilo sia dell’individuazione del predetto dies a quo – a partire dal quale poter eventualmente e legittimamente applicare una sanzione sostitutiva senza incorrere in decadenze – sia della gestione, nelle more della definizione del giudizio di impugnazione della prima sanzione, dell’efficacia di una pluralità di provvedimenti disciplinari applicati in relazione al medesimo addebito.
Ebbene – a fronte di tale lacuna e ferma restando l’opinabilità quantomeno delle argomentazioni motivazionali poste a supporto della sentenza in esame – si esprime, a questo punto, l’auspicio che la controversa questione venga rimessa all’apprezzamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (al fine di individuare un orientamento giurisprudenziale definitivo oltre che completo sul profilo sopra evidenziato).
In ogni caso – nelle more – non si può fare a meno di considerare l’impatto che la pronuncia in esame potrebbe avere nella dinamica gestionale dei procedimenti disciplinari, ed in particolare sulla scelta fatta in origine dal datore di lavoro in termini di entità della sanzione conservativa da applicare.