20 Novembre 2019
Con la recente sentenza n. 26029 del 15 ottobre 2019, gli Ermellini si sono espressi in ordine ad un licenziamento comminato ad un lavoratore computato nella quota di riserva ai fini del collocamento obbligatorio.
Il recesso era stato irrogato ai sensi degli artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991, trattandosi di un licenziamento collettivo determinato dalla esternalizzazione del reparto cui il lavoratore era addetto unitamente ad altri colleghi.
I giudici di merito, di primo e di secondo grado, hanno accertato e dichiarato l’illegittimità del recesso per violazione dell’art. 10, comma 4, della legge n. 68/1999 il quale testualmente prevede che «il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente legge».
La società datrice di lavoro ha promosso ricorso in Cassazione evidenziando – tra l’altro – di aver tentato il repêchage del lavoratore disabile che aveva rifiutato l’offerta di ricollocazione nello stesso sito produttivo e nelle stesse mansioni già espletate, alle dipendenze, tuttavia, della società appaltatrice del reparto.
La Suprema Corte ha tuttavia rigettato il ricorso, confermando le sentenze di merito in ragione del fatto che la ratio della norma succitata (di cui all’art. 10, comma 4, della legge n. 68/1999) è sostanzialmente quella di evitare che, in occasione di licenziamenti motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti relativi alla presenza percentuale, nella sua azienda, di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunto in conformità ad un obbligo di legge.
In ogni caso i giudici di legittimità (che, con la pronunzia in esame, hanno ribadito un principio già affermato con la sentenza n. 12911/2017), hanno sottolineato come tale previsione normativa – che, invero, risulta assolutamente univoca nella sua formulazione – riguardi soltanto il licenziamento di cui all’art. 4, comma 9, legge n. 223/1991, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, e non anche gli altri tipi di recesso datoriale.
Così, ad esempio con sentenza n. 15873 del 2012, la Cassazione ha chiarito che «…la norma [di cui all’art. 10, comma 4, legge n. 68/1999, n.d.r.] non si applica al licenziamento disciplinare, nelle sue diverse configurazioni, in conformità con l’idea ispiratrice di tutta la legge n. 68 del 1999 di coniugare la valorizzazione delle capacità professionali dei disabili (o equiparati) con la funzionalità economica delle imprese che li assumono» mentre, con la sentenza n. 21377 del 2016, ha precisato che «al licenziamento per superamento del periodo di comporto non può applicarsi la L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4,…».
Nel caso di specie, invece, ricadendo il licenziamento proprio in una delle ipotesi previste dalla citata norma, la Cassazione ha ritenuto sufficienti a sorreggere il decisum (ed a rigettare il ricorso promosso dal datore di lavoro), le risultanze di fatto emerse nei precedenti giudizi di merito (e non contestabili in sede di legittimità) concernenti, da un lato, la sussistenza in capo al lavoratore dei requisiti per l’assunzione ai sensi della normativa sul collocamento obbligatorio e, dall’altro, che con il suo licenziamento fosse stata violata la quota di riserva.
Seppure i giudici di legittimità non ne facciano cenno nella loro pronunzia, si deve ritenere che la previsione in esame presupponga in ogni caso una possibile ricollocazione lavorativa del disabile, con la conseguenza che la norma medesima dovrebbe ritenersi inoperante nel caso in cui il datore di lavoro dimostri che non vi sia effettivamente alcuna possibilità occupazionale per l’invalido, per ragioni che attengono alla sua capacità lavorativa.