2 Febbraio 2021
A distanza di quasi un anno dal blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo disposto dall’art. 46 del decreto “Cura Italia” (oggi prorogato dalla legge di Bilancio sino al 31 marzo 2021), comincia a formarsi della giurisprudenza di merito in materia.
Al riguardo, degna di nota è la recentissima sentenza del Tribunale di Ravenna del 7 gennaio 2021, che affronta la questione relativa alla legittimità del recesso datoriale per sopravvenuta inidoneità alla mansione, essendo dibattuto – sin dall’emanazione della suddetta normativa – se tale motivo di licenziamento debba o meno essere ricompreso nel blocco dei licenziamenti.
Il Tribunale romagnolo, chiamato a dirimere la suddetta questione, rammenta preliminarmente che il licenziamento per inidoneità alla mansione integra, secondo giurisprudenza e dottrina consolidata, un motivo oggettivo di licenziamento, essendo quest’ultima una categoria frammentaria e che comprende tutto ciò che è diverso dal recesso per motivi disciplinari.
Dopo aver fatto la suddetta premessa, con una interpretazione – invero opinabile e che non tiene conto della vera ratio della norma (che è quella di contenere le ricadute occupazionali dovute unicamente alla sospensione o alla riduzione delle attività a causa dell’emergenza sanitaria in corso) – il Tribunale ha ritenuto che non possano esservi dubbi sulla circostanza che anche il licenziamento per sopravvenuta inabilità rientri nel blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, “non solo perché il motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare) nella dicotomia dell’art. 3 della L. n. 604/1966”, ma anche perché per “tale licenziamento valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale…che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire”.
Il Giudice di merito argomenta la propria decisione sostenendo, altresì, che il licenziamento del lavoratore per inidoneità è una extrema ratio, evitabile con l’adozione delle misure organizzative volte a consentire al dipendente di continuare a lavorare presso lo stesso datore di lavoro, anche mediante lo svolgimento di mansioni inferiori ex art. 42 d.lgs. 81/2008 e, pertanto, “in una situazione di contrazione economica…con blocchi più o meno totali alle attività d’impresa e comunque rallentamenti della stessa in pluralità di settori produttivi…la scelta del congelamento dei licenziamenti dei dipendenti (il cui costo di mantenimento senza svolgimento della prestazione veniva correlativamente assunto dall’INPS) andava a rimandare alla fase successiva all’emergenza ogni valutazione aziendale circa l’esistenza (a quella data) di giustificati motivi oggettivi di licenziamento”.
In sintesi – ed in disparte ogni valutazione in ordine all’errata ed apodittica affermazione a mente della quale i costi relativi al mantenimento del posto di lavoro pur in assenza di prestazione lavorativa verrebbero sostenuti dall’Inps – secondo il Tribunale di Ravenna, atteso che nell’ottica del legislatore solo all’esito del superamento del periodo della crisi potrà esservi una attuale e concreta scelta sulla organizzazione o riorganizzazione aziendale e, dunque, sulla ricollocazione del lavoratore ai sensi dell’art. 42 del d. lgs 81/2008, il licenziamento per sopravvenuta inidoneità deve essere inevitabilmente ricompreso nel blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, con conseguente nullità di ogni provvedimento espulsivo adottato nelle more per tale ragione.
La suddetta decisione, peraltro, si pone in linea con la discussa nota n. 298 del 24 giugno u. s. della Direzione Centrale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (a cui, peraltro, il Giudice di Ravenna non ha fatto minimamente cenno), già oggetto di commento con news del 26 giugno 2020, con la quale il citato Istituto – partendo dal presupposto che “il legislatore ha inteso conferire alla norma un carattere generale, con la conseguenza che devono ritenersi ricomprese nel suo alveo tutte le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966” – ha ritenuto preclusa la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro anche nel caso di inidoneità sopravvenuta alla mansione, in quanto tale circostanza “impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell’organizzazione aziendale (cfr. Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 27243 del 26 ottobre 2018; Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 13649 del 21 maggio 2019)”.
Ebbene, nonostante l’avallo giurisprudenziale fornito dalla pronuncia del Tribunale di Ravenna, non può non osservarsi ancora una volta che una simile interpretazione non appare affatto convincente, non solo perché non sembra fare i conti con la ratio della norma (che, a ben vedere, è quella di evitare i licenziamenti dovuti alla sospensione o riduzione dell’attività lavorativa a causa del Covid), ma soprattutto perché potrebbe risultare pregiudizievole per il lavoratore, il quale – in assenza di posizioni alternative per la ricollocazione – potrebbe andare incontro alla sospensione dal servizio senza retribuzione (in attesa della cessazione del rapporto), con l’inevitabile conseguenza di non poter avere immediato accesso agli ammortizzatori sociali.