23 Giugno 2017
In occasione dei recenti corsi di formazione tenutisi presso le sedi dell’Aris dedicati alle modalità di esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, con riferimento sia alle mansioni e sia alla sede di lavoro, particolare interesse ha destato la tematica del trasferimento del dipendente titolare di permessi ex art. 33 della legge n. 104/92.
La norma succitata così recita: «il lavoratore di cui al comma 3 [ovvero il titolare di permessi “104” per assistere un familiare affetto da disabilità grave e non già il soggetto che utilizza i permessi per sé stesso, n.d.r.] ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede».
La prima parte della norma, laddove precisa “ove possibile”, deve ritenersi dispositiva di un interesse legittimo in capo al lavoratore e non già di un diritto soggettivo insindacabile, con la possibilità, pertanto, per il datore di lavoro di opporre diniego all’eventuale richiesta di assegnazione ad altra sede non corrispondente alle esigenze organizzative aziendali.
Diversamente deve, invece, argomentarsi per la seconda parte della norma, nella quale il rifiuto del lavoratore titolare di permessi “104” al trasferimento si configura come un vero e proprio diritto soggettivo, con la conseguenza che, mancando il suo consenso, il provvedimento datoriale deve considerarsi senz’altro invalido.
Sorge, tuttavia, spontaneo domandarsi come debba comportarsi il datore di lavoro nel caso in cui il trasferimento – seppure non gradito al lavoratore – costituisca l’unica possibile alternativa alla risoluzione del posto di lavoro.
In tal caso, è evidente che il diritto di rifiutare il trasferimento deve ritenersi secondario rispetto all’interesse del lavoratore ad evitare il licenziamento.
Quanto sopra è stato di recente confermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 12729 del 12 maggio 2017 con la quale il collegio ha ritenuto legittimo il provvedimento di trasferimento adottato nei confronti di una lavoratrice titolare di permessi “104” (e dalla stessa contestato) in conseguenza dell’accertata soppressione del suo posto di lavoro per giustificate ragioni organizzative.
Di conseguenza i giudici di legittimità hanno confermato un’interpretazione della norma orientata ai principi generali affermatisi nell’ordinamento, secondo i quali – rispetto alla salvaguardia del posto di lavoro – ogni altro diritto può venir meno.
Il riferimento, in particolare, è ad esempio all’art. 2103 c.c., come recentemente modificato dal Jobs Act, il quale – recependo un orientamento giurisprudenziale della Cassazione ormai consolidato sul punto (quello del c.d. “male minore”) – ha espressamente regolamentato la possibilità di procedere con il lavoratore ad un demansionamento concordato, da stipularsi in sede protetta, laddove esso costituisca l’unica soluzione possibile al fine di evitare il licenziamento dello stesso.
Naturalmente il supremo collegio nella sentenza in esame ha specificato che è onere del datore di lavoro dimostrare la ricorrenza delle ragioni che hanno determinato la soppressione del posto di lavoro, le quali – seppure insindacabili ai sensi dell’art. 41 della Costituzione – devono, tuttavia, essere debitamente provate quanto alla loro effettiva sussistenza.