10 Settembre 2014
Il ritardo dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro costituisce – senza dubbio – il primo e più rilevante effetto della difficile congiuntura economica in cui versa il nostro paese da diversi anni.
Eppure il blocco dei contratti deciso per contrastare la crescita del costo del lavoro, rischia persino di essere un provvedimento insufficiente, tanto che all’interno delle associazioni di categoria si sta sviluppando un approfondito dibattito circa l’opportunità di disdettare o recedere dai vecchi contratti collettivi per stipularne di nuovi, meno onerosi, quindi più in linea con la sopravvenuta onerosità dei ccnl precedentemente sottoscritti.
Ma fino a dove può arrivare l’autonomia dei datori di lavoro? Quanto è legittima una decisione datoriale di recedere da un contratto collettivo per sottoscriverne uno differente?
La questione non è di facile soluzione, e impone un’attenta valutazione di tutti gli interessi in ballo: non solo, cioè, l’interesse dei datori di lavoro ad utilizzare strumenti contrattuali meno onerosi di quelli adottati in tempi di maggior floridità economica, ma anche l’interesse dei lavoratori di poter fare affidamento su contratti collettivi che assicurino (se non un miglioramento) almeno un mantenimento di condizioni dignitose tanto in termini di disponibilità economica che in termini di qualità delle tutele normative acquisite.
Circoscrivendo l’analisi all’ambito meramente giuslavoristico, sicuramente la soluzione del problema è molto più semplice nei casi in cui i contratti collettivi abbiano una durata predeterminata ed un rinnovo automatico, perché in quei casi sarà sufficiente comunicare la disdetta per impedire che, alla scadenza definita, si possa verificare il rinnovo; neppure esistono dubbi quando i contratti siano a tempo indeterminato, oppure quando essi (pur essendo a termine) siano muniti da una clausola di ultrattività: in questi casi sarà necessario operare un vero e proprio recesso, e la comunicazione conseguente dovrà opportunamente essere corredata da un adeguato preavviso, onde evitare l’immediata caducità delle norme che regolamentano i rapporti tra le parti.
Come regolarsi, invece, allorquando si renda necessario recedere anticipatamente da un contratto collettivo a termine?
Occorre osservare, preliminarmente, che una simile ipotesi sarà possibile soltanto in ricorrenza di una giusta causa, salvo ovviamente il caso in cui il recesso non avvenga per concorde volontà delle parti.
E nei rapporti contrattuali, la giusta causa può ricorrere soprattutto in due ipotesi:
1) grave inadempimento degli obblighi fissati nel contratto collettivo,
2) impossibilità sopravvenuta.
Il grave inadempimento potrebbe verificarsi in ogni ipotesi in cui una delle parti non dia esecuzione ad un elemento essenziale dell’accordo sottoscritto: si pensi, ad esempio, alla reiterata e immotivata non corresponsione del premio di incentivazione o dell’indennità di esclusività, oppure all’autoriduzione dell’orario di lavoro da parte di tutti i lavoratori (tutte, ipotesi, comunque, suscettibili di esecuzione in forma specifica); l’impossibilità sopravvenuta, invece, potrebbe verificarsi quando le condizioni globali del mercato comportino uno stato di crisi tale da impedire al datore di lavoro il mantenimento degli oneri economici definiti nel contratto collettivo.
Proprio in questa prospettiva, all’interno delle associazioni datoriali è in corso un serrato confronto, che non ha mancato di riverberare scontri con le controparti sindacali ed ha anche portato all’adozione di differenti contratti collettivi in ambiti specifici (quali la riabilitazione e le residenze sanitarie assistenziali).
Occorre tuttavia dar conto che, in dottrina, v’è chi ritiene che le generali regole per i rapporti contrattuali non possano pacificamente estendersi anche ai contratti collettivi di lavoro (Tiraboschi, Maresca), sul presupposto che l’istituto del recesso – nel campo dei contratti collettivi di lavoro – non sia finalizzato ad estinguere il rapporto esistente (come accade nella generalità dei contratti), bensì a consentire alla parte recedente di rideterminare le condizioni contrattuali, acquisendo una posizione di maggior forza rispetto alla parte che invece deve subire il recesso.
Secondo altri, inoltre, le fluttuazioni del mercato costituiscono a pieno titolo elemento proprio dell’alea imprenditoriale, e quindi i rischi di depressione del mercato non possono che ricadere sull’imprenditore stesso, quale evidente e concreta esplicitazione del rischio imprenditoriale.
Conseguentemente, il recesso anticipato dal contratto collettivo a termine, se motivato dalla sopravvenuta onerosità del contratto stesso, dovrebbe ritenersi illegittimo.
Come contemperare i due interessi?
Se da un lato, infatti, sarebbe aberrante ipotizzare che i datori di lavoro debbano essere vincolati sine die agli obblighi contenuti in un contratto collettivo (così che nessun accordo sarebbe modificabile in pejus senza il consenso delle parti che le peggiori condizioni devono andare a subire), d’altro canto, tuttavia, neppure accettabile è la prospettiva opposta (che offrirebbe ai datori di lavoro una via di fuga piuttosto facile ogni qualvolta intendessero sottrarsi ad accordi contrattuali liberamente e volontariamente sottoscritti).
La vicenda, con ogni probabilità, troverà la sua definizione soltanto dopo una inequivocabile presa di posizione della Corte di Cassazione.
Oppure, senza dover necessariamente aspettare una definitiva indicazione della Suprema Corte, le parti potrebbero esplorare la strada di un accordo interconfederale che possa definitivamente fornire una linea di condotta vincolante ed equa tanto per i datori di lavoro che per i lavoratori; in mancanza di un accordo interconferale, un’intesa in tal senso potrebbe essere raggiunta – perché no? – direttamente tra le associazioni datoriali e sindacali del settore sanitario e socio sanitario.
A giudizio di chi scrive, la via maestra è costituita dall’individuazione di un contratto collettivo “erga omnes” contenente le condizioni minime non derogabili e (quindi) automaticamente applicabili in tutte le ipotesi di carenza contrattuale: questo contratto collettivo “basico” – che potrebbe essere individuato ad esempio (per il personale non medico) nell’ultimo sottoscritto insieme da Aris ed Aiop – assicurerebbe ai datori di lavoro ed ai lavoratori, rispettivamente, una via d’uscita da condizioni divenute onerose e un trattamento minimo sotto il quale non sarebbe comunque possibile scendere.
Un’intesa di tal tenore avrebbe soltanto riverberi positivi: consentirebbe, infatti, di superare tutte le eccezioni contrarie formulate dalla dottrina (di cui si è dato conto sopra), garantirebbe la continuità dei rapporti di lavoro e soprattutto impedirebbe il ricorso a spiacevoli forzature quali quelle cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
Un simile progetto meriterebbe di essere attentamente considerato tanto dalle parti datoriali che dalle parti sindacali, perché un protocollo di tal genere consentirebbe al sistema di trovare al proprio interno la soluzione alle più acute occasioni di conflittualità: saremo così bravi da cogliere una simile opportunità?