18 Luglio 2014
Il Ministero del Lavoro, nel rispondere ad un interpello avanzato dall’Enpam in ordine alla certificazione del corretto assolvimento degli obblighi contributivi gravanti sulle società operanti in regime di accreditamento con il SSN ha espresso alcune considerazioni in ordine all’obbligo previsto dall’art. 1, co. 39, L. 243/2004 invero non del tutto condivisibili.
La norma citata prevede, come noto, che le società professionali mediche ed odontoiatriche, in qualunque forma costituite, e le società di capitali, operanti in regime di accreditamento col Servizio sanitario nazionale (con esclusione, dunque, di Onlus, Cooperative, Associazioni, Fondazioni, e Istituti gestiti da Ordini Religiosi, che non sono in alcun modo ascrivibili tra i destinatari della disposizione citata) debbano versare all’ENPAM un contributo pari al 2 per cento del fatturato annuo, attinente alle prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale.
Il Ministero, ritenendo applicabili ai rapporti di accreditamento le disposizioni di cui all’art. 31 del d.l. n. 69/2013 (conv. il l. n. 98/2013), dà per scontato che le Asl siano tenute ad acquisire il DURC dalle strutture sanitarie private sia al momento della stipula del contratto, sia prima di procedere al pagamento delle prestazioni relative a servizi e forniture.
Sulla scorta di un simile presupposto, il Ministero estende tale obbligo anche alla verifica della regolarità contributiva in ordine al corretto versamento da parte delle strutture private accreditate, concludendo che “le Aziende sanitarie, oltre all’acquisizione d’ufficio del DURC siano tenute – in sede di stipula del contratto di accreditamento che al momento della liquidazione delle fatture – a richiedere all’ENPAM il rilascio della certificazione equipollente al DURC attestante il regolare adempimento degli obblighi contributivi di cui al citato art. 1, co. 39, della l. n. 243/2004”.
In realtà, la verifica del possesso del DURC è generalmente effettuata dalle pubbliche amministrazioni nei confronti dei privati con i quali intrattengano rapporti commerciali, sulla scorta di quanto previsto dal d.lgs. n. 163/06 (sul quale si innesta l’art. 31 del d.l. 69/13 richiamato nell’interpello), recante il codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
Il predetto codice disciplina i contratti aventi per oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere, prevedendo che l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture debba garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza, rispettando – altresì – i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità.
Secondo quanto chiarito dall’art. 6, comma 3, del Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (approvato con DPR 207/10) la regolarità contributiva oggetto del documento unico di regolarità contributiva riguarda – in linea di principio – tutti i contratti pubblici, siano essi di lavori, di servizi o di forniture.
In particolare, le amministrazioni acquisiscono d’ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva in corso di validità non solo per la stipula del contratto, ma anche per il pagamento degli stati avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture, nonché per il pagamento del saldo finale.
Tuttavia, per espressa previsione dell’art. 20 del codice degli appalti, sono esclusi dall’applicazione delle previsioni nello stesso contenute i contratti elencati nell’allegato II B, tra i quali rientrano i “servizi sanitari e sociali”.
Di conseguenza, contrariamente a quanto riportato nell’interpello in commento, la normativa in materia di appalti pubblici non contempla alcun obbligo da parte delle ASL di acquisire d’ufficio non solo il DURC, ma anche (a maggior ragione) eventuali certificazioni equipollenti da parte delle Casse private (Enpam compreso) relativamente alla posizione delle strutture private accreditate.
Piuttosto, è la normativa regionale in materia di accreditamento a richiedere in alcuni casi alle strutture di certificare il regolare assolvimento dell’obbligo contributivo tramite la produzione del DURC.
Ciò posto, è inutile sottolineare gli effetti aberranti che potrebbero scaturire da una simile interpretazione: in molte Regioni in cui il pagamento da parte delle ASL delle prestazioni fornite dalle strutture private che operano in regime di accreditamento registra ritardi di molti mesi (se non, in alcuni casi, di anni), con conseguenti difficoltà per le predette realtà sanitarie di adempiere regolarmente agli oneri contributivi, il blocco della liquidazione delle rimesse a motivo del mancato ottenimento del DURC provocherebbe l’innescarsi di un circolo vizioso da cui le strutture difficilmente riuscirebbero ad uscire (per lo meno fino a quando le disposizioni sulla regolarità contributiva non verranno coordinate con le norme che regolano la “compensazione” dei debiti contributivi con i crediti certi, liquidi ed esigibili vantati, dal soggetto destinatario del DURC, nei confronti della pubblica amministrazione).
Criticità ancora maggiori e più diffuse si creerebbero ove – a maggior ragione – la suddetta interpretazione fosse adottata anche con riferimento al rilascio di certificazioni di regolarità contributiva da parte dell’Enpam per ciò che concerne l’obbligo di cui alla l. n. 243/04 (art. 1, co. 39).
Tale norma, fin dall’emanazione ha creato non pochi problemi interpretativi a causa della sua infelice formulazione e, ancora oggi, è al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale che vede contrapposti da una parte la Corte d’Appello di Roma (cfr. la precedente nota dello scrivente “La Corte d’Appello di Roma conferma che il 2% del contributo Enpam si calcola sui compensi erogati ai liberi professionisti e non sul fatturato”) e dall’altra una frangia (invero ormai minoritaria) del Tribunale capitolino che ritiene, invece, che il contributo vada calcolato sul fatturato (sent. n. 4857/2014) e che apostrofa come “contra legem” l’interpretazione dei giudici di secondo grado.
Sorprende, pertanto, che il Ministero (probabilmente aderendo alla tesi prospettata dall’Enpam nell’interpello) ritenga pacifico il criterio del computo del contributo del 2% sul fatturato (escludendo, così le altre opzioni ermeneutiche), concludendo persino per la possibilità per l’Ente di accedere direttamente ai dati in possesso delle ASL per ciò che concerne il fatturato delle strutture sanitarie private derivante dall’attività ambulatoriale resa in regime di accreditamento (in contrasto, peraltro, con quanto risposto allo stesso Ente dal Garante per la protezione dei dati personali, con comunicazione prot. n. 0009682 del 3 febbraio 2011).
In un simile regime di incertezza in ordine alla portata del predetto onere contributivo, attribuire all’Enpam il potere di certificare la regolarità contributiva delle strutture sanitarie (con la maggior parte delle quali è in atto un contenzioso in merito ai criteri sui quali quantificare gli importi dovuti) appare a dir poco azzardato, in quanto porrebbe le società che operano in regime di accreditamento nella difficile posizione di scegliere se resistere alle pretese dell’Enpam (rischiando il mancato rilascio della certificazione ed il possibile blocco dei pagamenti delle prestazioni rese da parte della ASL), ovvero cedere all’interpretazione dell’IEnte di previdenza dei medici al solo scopo di non accumulare altri ritardi nel pagamento delle rimesse da parte degli Enti competenti.