24 Novembre 2017
Il licenziamento della lavoratrice, dall’inizio del periodo di gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, è vietato dall’art. 54 del d.lgs. n. 151 del 2001, il quale prevede, tuttavia, alcune tassative eccezioni a tale principio, ammettendolo esclusivamente nelle ipotesi di: “a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; d) esito negativo della prova…”.
Con particolare riferimento all’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui alla citata lettera b, ovvero “cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta”, la Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 28 settembre 2017 n. 22720, ha precisato che tale deroga «…è insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica. Di talché per la non applicabilità del divieto in parola, devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lett. b), ovvero che il datore di lavoro sia un’azienda e che vi sia stata cessazione dell’attività».
La vicenda trae spunto dal licenziamento intimato da una società ad una lavoratrice madre nel corso di una procedura di licenziamento collettivo determinata dalla chiusura di un reparto dotato di piena autonomia funzionale.
Gli Ermellini, malgrado in passato abbiano fornito una interpretazione estensiva della norma in esame – ammettendo la possibilità del licenziamento della lavoratrice madre anche nell’ipotesi di cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa, a condizione che il datore comprovasse l’impossibilità del reinserimento della dipendente in un’altra struttura o reparto dell’azienda – hanno, in tal caso, statuito l’illegittimità del recesso unicamente in ragione del fatto che nella fattispecie la società datrice di lavoro, nonostante la chiusura del reparto, proseguisse la propria attività.
Per di più nella pronunzia in commento, la Suprema Corte – pur dando espressamente atto della sussistenza del succitato diverso orientamento giurisprudenziale, in virtù del quale, come sopra evidenziato, la locuzione “cessazione dell’attività dell’azienda” può essere ritenuta estensibile alla soppressione di un reparto autonomo, salvo obbligo di repechage (cfr. Cass. n. 23684/2004; Cass. n. 9551/1999; Cass. n. 7752/1986; Cass. n. 5647/1985) – lo ha chiaramente disatteso, evidenziando come lo stesso non fosse comunque univoco.
Si tratta, pertanto, di un irrigidimento interpretativo rispetto al passato che si inserisce nel solco di un atteggiamento di massima tutela della lavoratrice madre in un lasso di tempo in cui si mira a proteggere innanzitutto la serenità della gestazione e della maternità nel primo periodo di vita del bambino.
Peraltro tale interpretazione restrittiva trova applicazione anche per le altre ipotesi di deroga al divieto di licenziamento sancite dall’art. 54 del d.lgs. n.151/2001, posto che, di recente, gli Ermellini hanno voluto ribadire che “la colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”, la quale consentirebbe il licenziamento della madre nel c.d. “periodo protetto”, non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo e neppure da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva ma occorre un connotato di gravità ulteriore rispetto a quello previsto dalla disciplina pattizia per i generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto (cfr. Cass. sentenza n. 2004/2017).