7 Luglio 2020
La Corte di Giustizia Europea ci ha ormai abituato a sentenze che possono incidere notevolmente sull’equilibrio delle norme nazionali, travolgendo, spesso e volentieri, gli orientamenti giurisprudenziali dei paesi membri.
Questa volta la magistratura dell’Unione Europea (cause riunite C-762-18; C-37-19) si è pronunciata su una questione riguardante la corretta applicazione dell’art. 7 della direttiva 2003/88 il quale prevede l’obbligo per gli Stati membri di introdurre una legislazione nazionale che garantisca ai lavoratori un periodo di almeno quattro settimane (non monetizzabili) di ferie all’anno.
In particolare, la questione (sollevata sia da una corte distrettuale bulgara, sia dalla Cassazione, cfr Ord. 451/19) verteva sulla possibilità per il lavoratore reintegrato di maturare le ferie nel periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegra in servizio.
Sul punto, la nostra giurisprudenza nazionale aveva già preso nettamente posizione (cfr. Cass. 24270/16; Cass. 18707/07) affermando che la ratio del diritto alle ferie – ovvero favorire il ristoro delle energie psicofisiche – rende evidente che solo l’effettiva attività lavorativa possa dare luogo alla maturazione delle stesse poiché durante il licenziamento il lavoratore può comunque beneficiare di un, seppur forzato, riposo.
Al riguardo, il giudice comunitario, dopo aver analizzato il suddetto orientamento e confermato il principio secondo cui sia effettivamente il lavoro prestato a determinare il diritto alle ferie, ha tuttavia assunto una decisione di senso opposto, affermando che «… in talune situazioni specifiche nelle quali il lavoratore non è in grado di adempiere alle proprie funzioni, il diritto alle ferie annuali retribuite non può essere subordinato da uno Stato membro all’obbligo di avere effettivamente lavorato», utilizzando a sostegno di questo assunto alcuni precedenti della stessa Corte comunitaria che prevedevano la maturazione della ferie durante i congedi per malattia.
In particolare, secondo quanto sostenuto dalla Corte, sia l’assenza per malattia, sia quella per licenziamento ingiustificato sarebbero accumunate dalla circostanza secondo cui il lavoratore in entrambi i periodi è completamente privato della possibilità di prestare attività lavorativa, indipendentemente dalla propria volontà.
In questo senso, la Corte di giustizia europea intende, dunque, equiparare il periodo intercorrente tra il licenziamento e la successiva reintegra del lavoratore allo svolgimento effettivo di attività lavorativa.
Tralasciando ogni considerazione sull’assimilabilità dell’assenza per malattia a quella per cessazione del rapporto di lavoro, è evidente come una simile interpretazione potrà, con ogni probabilità, comportare un “cambio di rotta” della Cassazione su fattispecie analoghe (a partire proprio dal giudizio per cui è stata sollevata l’eccezione pregiudiziale).
Tuttavia, la completa equiparazione del periodo intercorrente tra licenziamento e reintegra ed il lavoro effettivamente prestato rimane tutt’altro che scontata.
Ad esempio, gli istituti premiali individuati dai contratti collettivi e legati all’effettiva presenza in servizio del lavoratore (tra cui i premi di incentivazione previsti dai contratti collettivi della sanità privata per il personale non medico) dovrebbero comunque sfuggire al campo di applicazione del principio espresso dal giudice comunitario.
Ciò in quanto, in primo luogo si tratta di elementi eccedenti il trattamento minimo fissato dalla legge e dai contratti collettivi (nei quali rientra invece a pieno titolo il periodo di ferie annuali); in secundis, la regolamentazione di tale istituto ha proprio lo scopo di premiare l’effettiva presenza in servizio dei dipendenti (non penalizzare i lavoratori assenti, a prescindere dalle motivazioni dell’assenza) e tale requisito non può certamente dirsi soddisfatto nell’ipotesi del lavoratore reintegrato.