28 Maggio 2019
Con la recente pronuncia n. 8299 del 25 marzo 2019 la Suprema Corte di Cassazione affronta l’interessante tematica relativa all’eventuale esistenza di un diritto soggettivo in capo ai lavoratori subordinati alla parità di trattamento in materia retributiva.
Il caso sottoposto al vaglio di legittimità, dopo le decisioni dei giudici di merito, riguardava un lavoratore che agiva in giudizio nei confronti del proprio datore al fine di ottenere il pagamento delle differenze retributive, dolendosi della circostanza che nei primi 15 mesi del rapporto di lavoro, a seguito della trasformazione del precedente contratto di formazione e lavoro, avesse ricevuto un trattamento economico inferiore, a parità di mansioni, rispetto a quello percepito dagli altri colleghi.
I Giudici di piazza Cavour, confermando la sentenza impugnata, hanno preliminarmente affermato che nei rapporti di lavoro subordinato la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva determina, in via generale, una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza. Partendo da tale premessa la Cassazione ha chiarito che l’eventuale accertamento di inadeguatezza della retribuzione non può essere svolto facendo riferimento ad una singola disposizione del contratto collettivo che prevede solo per alcuni lavoratori un trattamento economico differente rispetto a quello previsto per altri, atteso che una simile valutazione dovrebbe unicamente basarsi sul parametro costituzionale previsto dall’art. 36 della Costituzione e sulle sole voci che formano la base minima della retribuzione.
Inoltre, la Corte, rigettando l’eccezione formulata al riguardo dalla difesa del lavoratore, ha affermato che – nello svolgimento del suddetto giudizio di adeguatezza – non può darsi alcun valore all’eventuale disparità di trattamento fra dipendenti che si trovano nella medesima posizione, non esistendo a favore del lavoratore subordinato un diritto soggettivo alla parità di trattamento.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione “l’attribuzione di un determinato beneficio ad un lavoratore non può costituire titolo per attribuire ad altro lavoratore, che si trovi nella medesima posizione, il diritto allo stesso beneficio o al risarcimento del danno; e, ancora, non solo non opera il principio di parità di trattamento, ma non è consentito alcun controllo di ragionevolezza da parte del giudice sugli atti di autonomia, sia collettiva che individuale, sotto il profilo del rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede, che non sono invocabili in caso di eventuale diversità di trattamento non ricadente in alcuna delle ipotesi legali (e tipizzate) di discriminazione vietate…”.
La condivisibile ordinanza in esame, nell’affermare il principio secondo cui non esiste a favore del lavoratore subordinato un diritto soggettivo alla parità di trattamento, si pone in perfetta linea con altre pronunce di legittimità che negano l’esistenza di un simile diritto anche in materia di procedimenti disciplinari.
Ed infatti, la Suprema Corte di Cassazione, ha più volte ribadito anche in tale ambito l’insussistenza di un generale principio di parità di trattamento, escludendo che la tolleranza manifestata dal datore di lavoro in talune occasioni debba necessariamente essere estesa anche ad altre analoghe (vedi Cass. n. 6901/2016; Cass. n. 16682/15).