Il d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 che disciplina, come noto, il lavoro a tempo parziale ha subito importanti modifiche apportate dalla cd. Riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92).
In particolare, già a seguito della “legge di stabilità”, il legislatore ha consentito al datore di lavoro di introdurre nei contratti di lavoro part time le cd. clausole flessibili e clausole elastiche (legittimanti, le prime, la modifica della collocazione temporale della prestazione, le seconde, la variazione in aumento della durata della giornata lavorativa, sia pure limitatamente ai rapporti part-time di tipo verticale o misto) a prescindere dalla previsione in tal senso del contratto collettivo, purché vi sia il consenso del lavoratore.
Ciò posto, una fra le novità più importanti introdotte dalla riforma del 2012, concerne proprio la reintroduzione del cd. diritto di ripensamento, ovvero il riconoscimento in capo al lavoratore della facoltà di revocare il proprio consenso alla clausola apposta al contratto.
In realtà, tale diritto era già previsto nell’originaria formulazione del d.lgs. 61/2000, ma venne in seguito abrogato ad opera dell’art. 46 del d.lgs. 276/2003, in modo tale che il lavoratore una volta accettato il patto di elasticità/flessibilità, risultava costretto a rimanere «permanentemente elastico».
Il diritto al ripensamento, come anticipato, è stato reintrodotto dalla legge Fornero, la quale affida alla contrattazione collettiva la facoltà di stabilire «condizioni e modalità che consentono al lavoratore di richiedere l’eliminazione ovvero la modifica delle clausole flessibili e delle clausole elastiche» (art. 1, co. 20, lett. a, legge n. 92 del 2012).
Tale innovazione, pur non essendo rivoluzionaria, ha la funzione di incentivare le parti sociali a dettare una regolamentazione della materia.
In secondo luogo, la riforma specifica – altresì – alcune situazioni che legittimano la facoltà di disdettare ex lege (quindi senza che sia previsto dalla contrattazione collettiva) la clausola elastica o flessibile, riconducibili a ragioni di salute/cura o di studio/formazione.
Nello specifico, l’art. 1, co. 20, lett. b, legge n. 92 del 2012 riconosce la facoltà di revocare il proprio consenso ai lavoratori a tempo parziale:
– affetti da patologie oncologiche, con una riduzione della capacità lavorativa, anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita (accertata da una commissione medica istituita presso l’Ausl territorialmente competente);
– ai lavoratori aventi il coniuge, un figlio o un genitore affetto da simili patologie, ovvero assistano una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa (che assuma connotazione di gravità ex art. 3, co. 3, legge n. 104 del 1992, alla quale è stata riconosciuta una percentuale di invalidità pari al 100%, con necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita);
– ai lavoratori con figlio convivente di età non superiore a 13 anni o con figlio convivente portatore di handicap ai sensi dell’art. 3, legge n. 104 del 1992;
– ai lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali.
Pertanto, in presenza delle causali legislative suindicate e della volontà – manifestata in qualsiasi forma dal lavoratore – di revocare il proprio consenso, il datore di lavoro non può, in alcun modo, subordinare la disdetta a valutazioni di compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.
Rispetto alle causali previste originariamente nel d.lgs. 61/2000 si riscontra che, ad oggi, non possono più essere prese in considerazione tutte le «esigenze di tutela della salute certificate dal competente Servizio sanitario pubblico», ma unicamente quelle connesse a gravissime patologie e non tutte le esigenze familiari, ma solo quelle connesse a gravissime patologie del proprio congiunto.
Tuttavia, la differenza più significativa rispetto alla disciplina del diritto di ripensamento contenuta nell’originario testo dell’art. 3, co. 10, d.lgs. n. 61 del 2000, attiene alla totale assenza del riferimento alla «necessità di attendere ad altra attività lavorativa subordinata o autonoma», non consentendo – di conseguenza – al lavoratore a tempo parziale che abbia sottoscritto il patto di elasticità/flessibilità, la possibilità di rendere compatibile il proprio rapporto di lavoro con un’altra eventuale (e sopravvenuta) attività, salvo che questo venga previsto dalla contrattazione collettiva di riferimento.
I contratti collettivi stipulati dall’Aris per il personale non medico dipendente da strutture sanitarie nonché per il personale dipendente da residenze sanitarie assistenziali e centri di riabilitazione, disciplinano unicamente la clausola di flessibilità, consentendo con l’introduzione della stessa nel singolo contratto di lavoro di modificare l’orario e i giorni in cui il lavoratore presterà l’attività lavorativa, ma non già di aumentare la durata della prestazione lavorativa contrattualmente fissata (cd. clausola elastica).
Inoltre i citati ccnl dell’Aris statuiscono che, contestualmente all’introduzione della clausola elastica, dovranno essere definiti i termini per il preavviso della variazione (i quali – in ogni caso – non potranno essere inferiori a due giorni) e l’eventuale introduzione della cd. clausola di ripensamento (ripensamento che potrà avvenire – a prescindere dall’introduzione di detta clausola nel contratto – in tutte le ipotesi sopra elencate previste dall’art. 1, co. 20, lett. b, legge n. 92 del 2012).