23 Marzo 2012
L’art. 2110 c.c. stabilisce che, in caso di malattia, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione per il tempo previsto dalla legge, potendo il datore di lavoro recedere dal rapporto solo decorso il cd. periodo di comporto.
Tale norma, tuttavia, non può configurare un diritto assoluto, dovendo contemperarsi con i principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c., che impongono al lavoratore di tenere una condotta che gli possa consentire l’adempimento degli obblighi contrattuali – primo tra tutti quello della prestazione lavorativa – assunti con la sottoscrizione del contratto di lavoro.
Ne consegue che l’insorgenza di uno stato morboso, ancorché durante il periodo feriale, determinato da un comportamento volontario del dipendente in violazione dei richiamati principi di buona fede e correttezza, potrebbe assumere valenza disciplinare idonea a consentire la risoluzione del rapporto di lavoro, irrilevanti restando le garanzie di conservazione del posto di cui all’art. 2110 c.c.
Quanto sopra costituisce ormai un granitico approdo della giurisprudenza di legittimità, che in più occasioni ha avuto modo di chiarire tale principio.
Al proposito, appare emblematico il caso di un funzionario di banca che per ben quattro volte, dopo essersi recato in ferie in un’isola africana, prima del termine del periodo feriale faceva pervenire al datore di lavoro certificazione medica attestante un’inidoneità lavorativa per lunghi periodi di tempo, necessari per curarsi dalla malaria contratta nel soggiorno in terra africana.
Nell’ultimo episodio, addirittura, il lavoratore – ben immaginando la riluttanza dell’Istituto bancario a concedergli le ferie per un ulteriore viaggio in Africa – faceva richiesta di fruizione di un periodo feriale, adducendo la necessità di assistere la madre malata.
Recatosi, invece, nuovamente in Africa, contraeva per l’ennesima volta la malaria e si trovava costretto ad assentarsi ancora una volta dal lavoro per un lungo periodo di tempo.
Ne seguiva una contestazione disciplinare e, successivamente, il licenziamento.
Dopo aver perduto i primi due grado di giudizio, il dipendente ricorre alla Suprema Corte, sostenendo l’operatività dell’art. 2110 c.c. indipendentemente dalle ragioni che hanno determinato la malattia, nonché l’illegittimità di qualsivoglia ingerenza da parte del datore di lavoro o del giudice in ordine alle modalità con le quali il lavoratore intende fruire del suo periodo di ferie. Il Supremo Collegio, tuttavia, gli dà torto, riconoscendo la legittimità del licenziamento (Cass. 1699/2011).
I Supremi Giudici, infatti – nel mentre confermano l’assoluta libertà del lavoratore nel decidere come e dove utilizzare le proprie ferie – evidenziano tuttavia, come sopra accennato, che tale libertà va coniugata con i principi di buona fede e correttezza, nel senso che il dipendente debba operare scelte che non siano lesive dell’interesse del datore di lavoro a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa dedotta in contratto.
Ove, pertanto, la malattia sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore – che scientemente assume un rischio elettivo particolarmente elevato, che supera il livello della mera eventualità per raggiungere viceversa quello della altissima probabilità – tale stato di malattia non trova tutela nell’art. 2110 c.c. né in altre disposizioni codicistiche e contrattuali.