27 Maggio 2016
Recentemente la Suprema Corte è intervenuta su un tema assai controverso quale quello della legittimità del recesso intimato al dipendente demansionato che si sia arbitrariamente assentato dal servizio.
Nel caso di specie, una lavoratrice veniva licenziata per essere ingiustificatamente rimasta assente per 12 giorni consecutivi (di cui 9 lavorativi) nel corso delle festività natalizie.
Impugnava il recesso e formulava domanda di reintegro nel posto di lavoro, oltre che di accertamento dell’intervenuto demansionamento, protrattosi negli ultimi anni a suo danno.
I giudici di merito – in primo grado e in appello – confermavano il demansionamento lamentato, ma rigettavano la richiesta di reintegro sul presupposto della legittimità dell’intimato licenziamento.
La lavoratrice, pertanto, ricorreva in Cassazione, rilevando come la sua assenza – in ragione del periodo in cui si era verificata e del demansionamento subito che l’aveva resa sostanzialmente inoperosa – non integrasse quel notevole inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro che solo consente la sanzione espulsiva.
La Suprema Corte, tuttavia, conferma la sentenza della Corte d’Appello, evidenziando che correttamente è stata ravvisata la giusta causa di licenziamento – prevista pure dal ccnl di riferimento per le assenza ingiustificate superiori a 5 giorni – nell’arbitraria e protratta assenza dal lavoro della dipendente, ed aggiungendo che tale assenza ingiustificata non può essere scriminata dall’operato demansionamento ai suoi danni, pure accertato dai giudici di merito.
La pronuncia in esame (Cass. 6260/16) appare di interesse, atteso che si pone in contrasto con altra decisione resa non molto tempo fa dalla medesima Corte (Cass. 1693/13).
Nella circostanza, gli Ermellini avevano statuito che ove il lavoratore, che sia stato demansionato, rifiuti di effettuare la prestazione lavorativa, non può essere licenziato se il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e se il lavoratore sia in buona fede. Nell’occasione, infatti, la Suprema Corte rilevava che, in omaggio al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive (art. 1460 c.c.), il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum”, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avendo riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione del contratto e alla loro rispettiva incidenza sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.
Per cui, qualora lo stesso rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione (nel caso di specie il lavoratore) non è grave, ovvero ha scarsa importanza, deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima (nella fattispecie l’azienda) di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, cod. civ. (Cass. civ. sez. Lav. n. 1693/2013).
Alla luce di tale contrasto di giudicati e pur nella inevitabile variabilità delle fattispecie concrete – che difficilmente si presentano sempre con le medesime caratteristiche – sarà opportuno un intervento chiarificatore sul delicato argomento, magari attraverso una pronuncia a sezioni unite della Suprema Corte.