19 Marzo 2019
La Corte di Appello di Torino con la sentenza 26/19 si è recentemente pronunciata su una delle vicende giuslavoristiche più complesse degli ultimi anni: la corretta qualificazione della natura del rapporto di lavoro dei c.d. “riders”, ovvero di quei lavoratori impegnati, spesso utilizzando cicli o motocicli, in servizi di consegna a domicilio.
Il crescente fenomeno dell’ordinazione dei pasti tramite applicazioni per smartphone ha determinato negli ultimi tempi un notevole incremento di tali lavoratori, tanto che da semplice prestazione occasionale effettuata principalmente da studenti (da sempre utilizzata dalla dottrina quale esempio di lavoro autonomo) si è passati ad un’attività svolta quasi a tempo pieno.
Proprio questo crescendo di richieste e di utilizzo di personale ha fatto sorgere nelle società di delivery la necessità di regolamentare tale attività in maniera più precisa e puntuale, fornendo ai riders dotazioni e strumenti aziendali che talvolta, anche solo indirettamente, possono costituire strumenti di organizzazione e controllo della prestazione lavorativa.
Tali regolamentazioni, infatti, sono state considerate da alcuni lavoratori come elemento di prova della loro sottoposizione al potere direttivo del datore di lavoro con la conseguente richiesta, in via giudiziale, del riconoscimento della natura subordinata del rapporto.
Dopo un primo e totale rigetto di tali richieste da parte del Tribunale di Torino (la cui sentenza è stata oggetto di una precedente news), le doglianze dei lavoratori hanno trovato parziale accoglimento dinnanzi alla Corte di Appello, la quale – con la sentenza in commento – ha effettivamente riconosciuto agli stessi alcune delle tutele previste per i lavoratori subordinati (tre cui quelle relative alla sicurezza sul lavoro, alla retribuzione diretta e differita, all’inquadramento professionale, ai limiti di orario, alle ferie ed alla previdenza) pur confermando la natura autonoma del rapporto.
Tale ricostruzione ha preso le mosse da una interpretazione innovativa dell’art. 2 d.lgs. 81/15, il quale prevede che «… si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».
La Corte, discostandosi dalla sentenza di primo grado, ha affermato che la norma in questione disciplina (dopo anni di accesso dibattito dottrinale in merito) un tertium genus di lavoro, ovvero quello parasubordinato il quale, pur mantenendo la propria natura autonoma, beneficia delle restanti tutele tipiche del lavoro subordinato.
Pertanto, secondo le conclusioni della Corte torinese, ad oggi, vi sarebbero tre categorie di lavoratori, distinguibili a seconda del grado di ingerenza del datore di lavoro: i collaboratori coordinati e continuativi (di cui all’art. 409, c. 3, del c.p.c.) la cui attività, non essendo organizzata dal committente, rientra sotto il profilo squisitamente giuslavoristico, nella nozione di lavoro autonomo ex art. 2222 del c.c.; i collaboratori etero organizzati dal committente a cui, ferma restando la natura autonoma, si applicano alcune delle tutele tipiche del lavoro subordinato secondo il citato art. 2 del d.lgs. 81/15 e, infine, i lavoratori subordinati, ovvero sottoposti all’eterodirezione del datore di lavoro, per i quali evidentemente trovano piena applicazione tutte le disposizioni, in primis quelle in tema di licenziamenti.
Tale interpretazione, se da un lato concede al collaboratore etero organizzato importanti tutele, quasi analoghe (almeno nel corso del rapporto) a quelle destinate ai lavoratori dipendenti, dall’altro potrebbe portare le aziende che svolgono attività che non necessitano di una forte ingerenza (tale da poter essere qualificata quale etero direzione) da parte del datore di lavoro a stipulare unicamente rapporti di lavoro ex art. 2 del d.lgs. 81/15, in luogo dei rapporti di lavoro subordinati generalmente utilizzati.
Tuttavia, in una simile situazione potrebbe non risultare agevole, specie dopo un lungo periodo di tempo, inquadrare con certezza se il grado di ingerenza datoriale ricada nell’alveo dell’etero organizzazione piuttosto che dell’etero direzione, riportando così una delle molteplici situazioni di incertezza che il Jobs act aveva tentato di eliminare.
Pertanto, è auspicabile che nel futuro attività simili vengano regolamentate, dal punto di vista economico e normativo, da un accordo collettivo nazionale (ex art. 2, c. 2, lett. a), d.lgs. 81/15) al pari di quanto fatto dall’Aris per la ricerca già nel 2015 (visionabile qui).