25 Ottobre 2019
L’art. 2119 c.c. dispone che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto…”.
Nella sua essenza, pertanto, il recesso per giusta causa implica il verificarsi di un fatto di gravità tale da porre irrimediabilmente in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il lavoratore.
La nozione di giusta causa trova, dunque, la propria fonte nella legge, con la conseguenza che ogni elencazione contenuta nei contratti collettivi o nei regolamenti aziendali ha valenza esemplificativa e non tassativa.
Tale aspetto, tuttavia, sfugge spesso agli operatori del diritto e talvolta anche ai giudici, che – nella valutazione in ordine alla sussistenza di una giusta causa di recesso – sovente si limitano alla verifica circa la corrispondenza tra il fatto addebitato al lavoratore in sede di contestazione disciplinare e la corrispondente previsione di tale mancanza all’interno del codice disciplinare.
Al proposito, tuttavia, la Suprema Corte è recentemente intervenuta (Cass. 18195/19) a chiarire che – sebbene le previsioni sanzionatorie contenute nel ccnl possano costituire un valido ausilio per il giudice in tal senso, quantomeno al fine di indicare il grado di disvalore che le parti sociali hanno inteso ricollegare a determinati comportamenti – la valutazione giudiziale in ordine al ricorrere della giusta causa non può limitarsi ad una formalistica analisi della tipizzazione delle ipotesi disciplinari (e sanzionatorie) contenuta nei ccnl e nei regolamenti aziendali.
Nel caso di specie, una dipendente di Poste Italiane aveva, insieme ad una collega, caricato in auto 20 kg di materiale pubblicitario – che avrebbe dovuto distribuire per conto di un operatore commerciale – e lo aveva portato in un centro di smaltimento della carta, in violazione delle disposizioni regolamentari.
Il datore di lavoro contestava tale condotta alla dipendente, indicando le ipotesi contrattuali ritenute violate, e la licenziava all’esito del procedimento disciplinare.
Impugnato il recesso da parte della lavoratrice, il giudice di primo grado lo dichiarava illegittimo, ritenendo non integrata alcuna delle ipotesi contestate – in quanto non esattamente corrispondenti alla condotta (pacificamente) posta in essere dalla dipendente – e rilevando di poter sussumere la fattispecie all’interno di un’altra previsione disciplinare, punita tuttavia solo con una sanzione conservativa, con conseguente reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro.
Del medesimo avviso era anche la Corte d’Appello, successivamente adìta dal datore di lavoro per la riforma della sentenza del giudice di prime cure, che pertanto rigettava il ricorso, confermando l’illegittimità del recesso e la reintegra con le stesse motivazioni del giudice di prime cure.
Poste Italiane ricorreva, quindi, per la cassazione di tale pronuncia, eccependo – tra l’altro – l’errata interpretazione delle norme legali e contrattuali in ordine alla nozione di giusta causa di recesso con riferimento all’accertata dolosa distruzione di materiale postale in palese e consapevole violazione di contrarie disposizioni regolamentari.
La Suprema Corte, finalmente, accoglie il ricorso.
In particolare, gli Ermellini, richiamando propri precedenti sul tema, evidenziano che “in materia disciplinare non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario”.
In forza di tale principio, i Supremi Giudici criticano l’operato della Corte territoriale che, nella fattispecie, ha circoscritto la propria indagine alla verifica in ordine alla sussumibilità del fatto ascritto in una delle tipizzazioni indicate nella contestazione che consentivano il recesso per giusta causa e, una volta conclusa con esito negativo tale verifica, ha ritenuto l’illegittimità del licenziamento, senza tuttavia tenere in debito conto che “la tipizzazione contenuta nel codice disciplinare ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso non esaurisce l’ambito dell’accertamento demandato al giudice di merito, poiché ove pure non sia riscontrabile la perfetta riconducibilità della fattispecie concreta in una di quelle astrattamente previste dalla contrattazione collettiva come suscettibili della irrogazione della massima sanzione disciplinare, non per ciò solo tale positivo riscontro può ritenersi esaustivo dell’indagine demandata al giudice di merito, atteso che la giusta causa di recesso ex art. 2119 c.c. è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza meramente esemplificativa”.
Dopo aver evidenziato come, nel caso di specie, la Corte d’Appello non avesse svolto alcuna valutazione in merito all’intensità dell’elemento psicologico nella illegittima condotta consapevole e volontaria della lavoratrice, nonostante il ccnl facesse riferimento – ai fini della graduazione delle sanzioni – al grado di intenzionalità del comportamento ed alla prevedibilità dell’evento, il Supremo Collegio conclude ribadendo il principio a mente del quale “in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza”.