15 Novembre 2022
Ha fatto scalpore sui social e sulla stampa la sentenza della Corte di Giustizia Europea emessa lo scorso 13 ottobre con la quale è stato dichiarato legittimo il divieto imposto da un’azienda di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro.
In verità, la notizia è stata riportata in maniera sensazionalistica e parziale, lasciando intravedere come la suddetta sentenza si ponga in contrasto con la libertà di manifestare la propria religione o le proprie convinzioni personali, libertà che – invero – costituisce uno dei pilastri fondamentali della società democratica, trovando garanzia in numerosissime norme di rango europeo e nazionale.
Per comprendere meglio i termini della vicenda occorre sottolineare che la stessa riguarda una causa intentata nel 2018 da una lavoratrice di fede musulmana avverso una società che l’aveva scartata dopo un colloquio in cui la medesima aveva affermato che, laddove fosse stata assunta, non si sarebbe tolta il velo durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Poiché non era stato dato seguito alla sua candidatura, la ricorrente aveva reiterato la sua domanda, proponendo di indossare al posto del velo un diverso copricapo al fine di coprire i capelli.
Tuttavia, la società aveva nuovamente escluso tale possibilità, poiché al suo interno non era consentito l’uso di copricapi durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, sia del velo, sia di ogni altro tipo di accessorio.
Vista – dunque – nella giusta prospettiva, la causa non concerne tanto la possibilità o meno per il datore di lavoro di impedire l’uso di simboli religiosi in quanto tali, ma piuttosto la possibilità per lo stesso di richiedere ai dipendenti una neutralità di abbigliamento, vietando loro l’uso di segni distintivi delle loro convinzioni religiose, filosofiche o politiche.
La Corte di Giustizia ha, infatti, concluso nel senso di riconoscere legittimo tale comportamento allorquando il divieto di indossare qualsiasi simbolo visibile di convinzioni religiose o personali sia imposto con l’unico fine di proiettare un’immagine neutrale dell’azienda nei confronti dei propri clienti (rientrando tale facoltà nella libertà di impresa normativamente tutelata), fine che può essere dimostrato dal fatto che il divieto è posto in maniera generale e indiscriminata a tutti i lavoratori. Dunque, queste sono le conclusioni cui è pervenuta la Corte di Giustizia, stabilendo che, nel caso di specie, la richiesta alla lavoratrice musulmana di non usare il copricapo era volto a mantenere un’immagine di neutralità dell’azienda e riferito ad ogni segno distintivo di appartenenza di tutti i lavoratori (a prescindere, quindi, dalla loro fede religiosa), cosa ben diversa dall’affermare, in maniera semplicistica e generalizzata, che i datori di lavoro possono vietare l’uso simboli religiosi nei luoghi di lavoro (divieto che, in diverse circostanze, certamente costituisce un comportamento discriminatorio e, in quanto tale, vietato dalla legge).