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Dubbi sul contratto a tutele crescenti: ancora un rinvio alla Consulta.

13 Dicembre 2019

Il Tribunale di Bari con ordinanza del 18 aprile 2019 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 4 dicembre 2019) ha rinviato alla Corte Costituzionale l’esame della normativa sul contratto a tutele crescenti (d.lgs. 23/2015) contestando, in particolare, la legittimità dell’art. 4 relativamente al meccanismo automatico di calcolo dell’indennità risarcitoria prevista per l’ipotesi di accertamento di vizi di motivazione e/o di procedura.

L’ordinanza trae origine da una controversia, tuttora in corso, avente ad oggetto la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato ad una lavoratrice per presunta condotta reticente, consistita nell’aver taciuto la circostanza di essere stata tratta in arresto, nonché per assenza ingiustificata dal servizio per un periodo superiore a 5 giorni.

In relazione agli addebiti mossi il Tribunale adito ha accertato la violazione, da parte della Società, della procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e del ccnl.

Con sentenza non definitiva, pronunciata in data 4 marzo 2019, la causa è stata decisa limitatamente all’accertamento dell’illegittimità procedurale del licenziamento impugnato, con conseguente individuazione della tutela applicabile in favore della lavoratrice in quella prevista dall’art. 4, d.lgs. n. 23/2015.

Detta disposizione legislativa prevede che «nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità (..)”.

Il Tribunale di Bari non ha proceduto, tuttavia, alla quantificazione dell’indennità spettante alla ricorrente ai sensi del menzionato art. 4, ritenendo la disposizione non esente da censure di incostituzionalità per due ordini di motivi.

Innanzitutto, è stato rilevato un possibile contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto il meccanismo di calcolo automatico della indennità sarebbe inidoneo a costituire sia un adeguato ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo, sia un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.

Inoltre la norma in questione, a dire del giudice adito, contrasterebbe altresì con il principio di uguaglianza in quanto il criterio di calcolo previsto dall’art 4 del d.lgs. 23/15 risulta identico, tranne che per il numero minimo e massimo delle mensilità, a quello (poi dichiarato incostituzionale) contenuto nell’articolo 3 del medesimo decreto.

Come noto, infatti, il d.lgs. 23/2015 è stato già oggetto di un vaglio di costituzionalità da parte della Consulta, la quale, con sentenza n.194/2018, pur confermando la legittimità dell’applicazione di tutele differenziate a seconda della data di assunzione del lavoratore, ha tuttavia ritenuto che il criterio di calcolo dell’indennità prevista dal Jobs Act non fornisse una adeguata tutela ai lavoratori.

A seguito di tale sentenza, pertanto, l’anzianità costituisce solo uno dei criteri (il principale, secondo la Corte Costituzionale) cui i giudici devono riferirsi per il calcolo dell’indennità in questione, ma non il solo: l’indennità, infatti, deve essere calcolata tenendo conto anche delle dimensioni aziendali, del numero di dipendenti occupato e del comportamento e delle condizioni delle parti.

L’ordinanza del Tribunale di Bari mette nuovamente “sotto accusa” il Jobs Act contribuendo, in tal modo, ad incrementare il clima di incertezza e disordine normativo che caratterizza la materia in questione.

L’unico dato certo è che l’intento originario del legislatore di deflazionare il contenzioso e facilitare la c.d. “flessibilità in uscita” rischia di aver oggi l’effetto opposto.

Ed infatti, il meccanismo fondato sull’indennizzo crescente legislativamente predeterminato – consentendo ai datori di lavoro ed ai lavoratori di avere contezza immediata delle conseguenze connesse all’eventuale dichiarazione di illegittimità del licenziamento – avrebbe dovuto costituire uno strumento di semplificazione, favorendo la flessibilità in uscita.

Attualmente, invece, anche in seguito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate, il principio della certezza del diritto, che dovrebbe costituire uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento, risulta inequivocabilmente minato, con inevitabile incremento del ricorso all’autorità giudiziaria.

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