6 Marzo 2015
La sentenza della Corte di Cassazione n. 17087, in data 8 agosto 2011, offre l’occasione per esaminare un tema di notevole importanza poiché, spesso, la giurisprudenza fonde e confonde la nozione di motivo illecito o ritorsivo con quella di discriminazione. A tal proposito è utile rammentare che sia il licenziamento discriminatorio sia il licenziamento per motivo illecito o ritorsivo ai sensi dell’art. 18 legge 300/ 1970 ( come novellato dall’art. 1, com.42, legge n. 92/ 2012) portano la nullità dell’atto di recesso e prevedono la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro indipendentemente dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro.
Inoltre, la reintegra piena in ipotesi di licenziamento discriminatorio e/o nullo è confermata nello schema di decreto legislativo pubblicato, sul proprio sito , dal governo in attuazione della legge delega sul Jobs act, che prevede modifiche rilevanti dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori per coloro che saranno assunti, successivamente all’entrata in vigore di tale decreto, sotto il nuovo regime del contratto a tutele crescenti.
Per cogliere le differenze tra il licenziamento per motivo illecito e il licenziamento per motivo discriminatorio è necessaria una distinzione di base: nella nozione di licenziamento discriminatorio rientrano il recesso intimato da ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale (tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero) nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali del dipendente. E’ evidente che il recesso ha il suo presupposto fondamentale nella appartenenza del lavoratore ad un determinato genere sociale.
Invece, il licenziamento per motivo illecito è posto in essere nel momento in cui l’azione del datore di lavoro costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (Sentenza 8 agosto 2011, n. 17087); altresì il motivo illecito genera nullità del licenziamento, nel momento in cui sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 1418 c.c., comma 2, articoli 1345 e 1324 c.c.. Da quanto detto, emerge il carattere di natura strettamente individuale e soggettivo del recesso per motivo illecito o ritorsivo.
A tal riguardo, oltre alla differenza di natura concettuale è necessario porre in essere un ulteriore distinguo in merito al regime probatorio.
Per il licenziamento discriminatorio l’art. 28 comma 4 d.lgs. 150/11 prevede che quando il ricorrente, lavoratore, fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto, datore di lavoro, l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione; quindi, al datore di lavoro spetta l’onere della prova nel momento in cui vi sia stata una attività precedente da parte del lavoratore nelle modalità suddette. Invece, per quanto concerne il licenziamento per motivo illecito o ritorsivo l’onere della prova grava sul lavoratore, la cui prova “è fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”.
Sia il licenziamento discriminatorio sia il licenziamento per motivo illecito o ritorsivo hanno un punto in comune circa gli effetti della dichiarazione di nullità del licenziamento da parte del giudice.
In entrambi i casi, infatti, il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore indipendentemente dal numero dei lavoratori occupati, inoltre condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno pari all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.
In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali ( art. 18 com. 2 legge n. 300/70) e al lavoratore, fermo restando il risarcimento del danno, è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale ( art. 18 com. 3 legge n. 300/70).