3 Agosto 2014
Recentemente la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 32, co. 4, lett. b), l. 183/10 (cd. Collegato lavoro), nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di cui al riformato art. 6, co. 1, l. 604/66 ai contratti a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della citata l. 183/10 e con decorrenza dalla medesima data.
Come noto, infatti, l’art. 32, co. 4, lett. b) del Collegato lavoro – entrato in vigore in data 24 novembre 2010 – estende la regola della necessaria impugnazione entro 60 giorni di cui all’art. 6 l. n. 604/1966, nonché l’obbligo di presentare il ricorso giudiziale nei successivi 270 giorni (ora 180 giorni), oltre che “a tutti i casi di invalidità del licenziamento” anche, tra l’altro, “ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge”.
Successivamente, l’art. 2, co. 54, d.l. 225/10, cd. Decreto mille proroghe, (così come modificato dall’allegato alla legge di conversione l. 10/11 con decorrenza dal 27.02.2011, nell’introdurre il comma 1-bis all’art. 32 cit., ha disposto che “in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’art. 6 l. 604/1966, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”.
Al proposito – al di là del problema interpretativo circa le ipotesi attinte dalla proroga, che non interessa la presente trattazione – resta fermo che il menzionato differimento del termine al 31 dicembre 2011 è stato previsto quando lo stesso, decorrente dal 24 novembre 2010 e della durata di 60 giorni, era ormai irrimediabilmente scaduto, con conseguente intangibilità di ogni fattispecie decadenziale medio tempore verificatasi.
Ed invero, ai sensi dell’art. 11 delle Preleggi “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” e, pertanto, ove la legge 10/11 avesse voluto sanare le decadenze già perfezionatesi avrebbe dovuto prevederlo espressamente.
Ebbene – partendo proprio da tale presupposto – il giudice rimettente ha ritenuto l’art. 32, co. 4, lett. b) del Collegato lavoro contrastante con i principi di parità di trattamento e di ragionevolezza espressione dell’art. 3 cost., ritenendo ingiustificata la previsione dell’applicazione del citato termine decadenziale ai soli contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della l. 183/10 e non anche a tutte le altre ipotesi previste dall’art. 32, co. 3 e 4 della stessa legge (vale a dire il recesso del committente nei rapporti di co.co.co. e co.co.pro, il trasferimento del lavoratore, la cessione del contratto di lavoro in caso di trasferimento d’azienda, la somministrazione di lavoro irregolare) e già verificatesi a quella stessa data.
Il Giudice delle leggi, tuttavia, con sentenza n. 155/14, rigetta la questione di legittimità costituzionale.
Spiega la corte che il nuovo regime introdotto dall’art. 32, l. 183/10 si applica nel suo complesso a tutti i contratti a termine, a quelli già scaduti alla data di entrata in vigore della legge, a quelli ancora in corso e a quelli successivamente instaurati. La ratio di tale disciplina si rinviene in una pluralità di esigenze: garantire la speditezza dei processi attraverso l’introduzione di termini decadenziali, contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte a grande distanza di tempo dalla scadenza del contratto, pervenire ad una riduzione del contenzioso giudiziario in questa materia.
Tutte esigenze che consentono di sostenere non irragionevoli le scelte del legislatore e pertanto salvaguardato il precetto dell’art. 3 cost.
Del pari, secondo la corte, anche l’applicazione retroattiva del più rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della l. 183/10, lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza.