14 Agosto 2013
Lo scorso 7 agosto 2013, la Camera dei Deputati ha definitivamente convertito in legge il d.l. 76/2013 (c.d. “Decreto Lavoro”), recante interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti.
La legge di conversione non è ancora stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e, pertanto, una valutazione integrale del provvedimento sarà svolta non appena sarà reso noto il testo definitivo della novella normativa.
Tuttavia, sulla base dei testi risultanti dai lavori parlamentari, è già possibile segnalare alcune importanti novità riguardanti la disciplina dei contratti di lavoro flessibili.
L’art. 7 del citato d.l. 76/2013 – nel testo convertito in legge – prosegue, infatti, nell’opera di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro subordinato iniziata dalla Riforma Fornero, con l’intento dichiarato di contrastare la disoccupazione.
In tale ottica, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, ampliando le possibilità di ricorrere a tale fattispecie.
In primo luogo, infatti, è stata ammessa la possibilità di prorogare i contratti a termine c.d. “a-causali”, con l’unico limite della durata complessiva, che comunque non può superare i dodici mesi.
Per effetto di tale disposizione, pertanto, è stato rimosso il divieto di prorogare i contratti in questione – stipulati in assenza di una ragione di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo – i quali, di conseguenza, potranno essere oggetto di proroga al pari delle altre tipologie di contratto a termine, purché nel rispetto del limite complessivo di 12 mesi.
Inoltre, viene demandata ai contratti collettivi di qualsiasi livello (anche aziendale), purché stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, la facoltà di introdurre nuove ipotesi legittimanti l’instaurazione di contratti di lavoro a termine.
A tal proposito, occorrerà attendere le precisazioni ministeriali in merito, anche se – sulla base del tenore letterale della disposizione – sembrerebbe che i contratti collettivi in questione possano introdurre nuove ipotesi di contratti a termine privi di causale giustificatrice sulla base di valutazioni sia di tipo organizzativo-economico, sia sociale (ad esempio, l’assunzione di una determinata categoria di soggetti, quali giovani o disoccupati).
Un’ulteriore (importante) novità riguardante i contratti di lavoro a termine è la riduzione dei “periodi di interruzione” che devono intercorrere tra un rapporto a tempo determinato e quello successivo.
L’art. 7 cit., infatti, modifica l’art. 5 del d.lgs. 368/2001 e stabilisce, in particolare, che un nuovo contratto a termine tra i medesimi soggetti possa essere stipulato una volta trascorso un periodo pari a 10 o 20 giorni, a seconda che il precedente rapporto abbia avuto una durata inferiore o superiore a 6 mesi.
Tale riduzione dei termini è immediatamente operativa e non necessita di alcun intervento della contrattazione collettiva, la quale, nondimeno, anche a livello aziendale, potrebbe prevedere una ulteriore diminuzione della durata degli “intervalli”, senza, tuttavia, poterli eliminare del tutto.
Si segnala, inoltre, che il Decreto elimina la necessità di comunicare preventivamente ai Centri per l’Impiego l’eventuale prosecuzione di fatto dei rapporti di lavoro a termine.
Tale comunicazione, in effetti, aveva generato numerose perplessità, posto che l’istituto della “prosecuzione di fatto” ha proprio lo scopo di evitare la conversione del rapporto di lavoro, a fronte di una continuazioni del rapporto di breve durata, motivate spesso da una dimenticanza dell’avvenuta scadenza del termine.
L’art. 7 in esame, inoltre, è intervenuto anche sul lavoro intermittente, che, come noto, in caso di assunzione di soggetti con età anagrafica inferiore a 24 anni o superiore a 55 anni, ovvero per lo svolgimento delle mansioni discontinue individuate dalla contrattazione collettiva (o, in assenza, dal d.m. 23 ottobre 2004), consente alle parti di concordare un particolare regime c.d. “a chiamata”, nel quale le prestazioni lavorative sono rese solamente qualora il datore di lavoro le richieda, con le forme e le modalità previste dalla legge.
Prima dell’entrata in vigore del d.l. 76/2013 si era posto il problema della legittimità del ricorso a tale contratto di lavoro, qualora le prestazioni lavorative fossero richieste continuativamente per un lungo periodo di tempo.
Il Decreto, pertanto, al fine di evitare confusione, interviene su tale argomento, precisando che (ad eccezione del settore del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo) il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore, per un periodo complessivamente non superiore a quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari.
Il superamento di tale periodo rende illegittimo il contratto intermittente che, quindi, viene convertito ex lege in un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato.
Il Decreto e la legge di conversione, inoltre, hanno introdotto alcune novità anche con riferimento al lavoro a progetto.
In particolare, infatti, il divieto di stipulare tale contratto per “lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi”, viene oggi ristretto ai soli compiti “esecutivi e ripetitivi”, cosicché, al fine di determinare l’illegittimità del progetto, non è più sufficiente semplicemente il carattere esecutivo o ripetitivo dello stesso, essendo necessario che tali caratteristiche (la ripetitività e l’esecutività) si presentino congiuntamente.
La norma, inoltre, stabilisce che “se il contratto [di lavoro a progetto] ha per oggetto un’attività di ricerca scientifica e questa viene ampliata per temi connessi o prorogata nel tempo, il progetto prosegue automaticamente”.
Tale disposizione, pur non introducendo una nuova area di esclusione dalla disciplina del lavoro a progetto, riconosce sostanzialmente la possibilità, nel settore scientifico, di prorogare tali contratti senza che ciò, come avviene normalmente, costituisca un indice della non genuinità degli stessi.
Quanto al lavoro accessorio – remunerato tramite appositi voucher orari messi a disposizione dall’Inps, già comprensivi degli oneri contributivi ed assicurativi – il Decreto elimina la necessità che lo stesso sia utilizzato solamente a fronte di prestazioni di natura meramente occasionale, così chiarendo definitivamente che tale rapporto di lavoro soggiace unicamente a limiti di carattere reddituale.
Di conseguenza, come chiarito in precedenza dall’Inps con circolare n. 49/2013, il lavoro accessorio non è più soggetto ad alcuna esclusione, sia di tipo soggettivo, sia oggettivo, e, pertanto, può essere svolto per ogni tipo di attività e da qualsiasi soggetto (disoccupato, inoccupato, lavoratore autonomo o subordinato, full-time o part-time, pensionato, studente, percettore di prestazioni a sostegno del reddito), nei limiti del compenso economico previsto.
A tal proposito, si rammenta che il compenso derivante dalla totalità dei rapporti di lavoro accessorio stipulati dal medesimo lavoratore (anche con più committenti) non può eccedere l’importo massimo annuo di 5.000 euro.
Inoltre, in aggiunta a tale limite generale, è previsto che – qualora il committente sia un imprenditore commerciale – il singolo contratto di lavoro accessorio non può dare comunque luogo ad un compenso annuo superiore ad 2.000 euro.
In proposito, l’Inps ha precisato che, con il termine “imprenditore commerciale” la legge ha inteso ricomprendere “qualsiasi soggetto persona fisica e giuridica che opera su un determinato mercato, per la produzione, la gestione o la distribuzione di beni e servizi, senza limitazioni dell’attività di impresa alle attività di intermediazione nella circolazione dei beni”.
Alla luce dell’ampiezza di tale definizione, appare opportuno che anche le strutture sanitarie e socio-sanitarie si attengano al duplice limite sopra illustrato.
Il Decreto, inoltre, interviene anche in materia di apprendistato e di tirocini formativi e di orientamento.
Con riferimento alla prima fattispecie, si prevede che la Conferenza Stato-Regioni adotti, entro il 30 settembre p.v., le linee guida in materia di apprendistato professionalizzante, al fine di uniformare le offerte formative pubbliche predisposte, sul territorio nazionale, dalle singole Regioni.
Quanto ai tirocini formativi e di orientamento, invece, la legge di conversione ha eliminato le novità previste dal testo originario del Decreto Lavoro, introducendo tuttavia una semplificazione per le imprese multi localizzate, le quali potranno fare riferimento alla sola normativa della regione dove è ubicata la sede legale e potranno altresì accentrare le comunicazioni obbligatorie presso il servizio informatico nel cui ambito territoriale è ubicata la sede legale.
Per completezza, si segnala che l’art. 7 cit. interviene anche sul procedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – chiarendo che il tentativo preventivo di conciliazione non è necessario in alcune particolari situazioni (la più rilevante delle quali è il superamento del periodo di comporto) – e sulla disciplina della convalida delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali, la quale viene estesa, in quanto compatibile, anche ai rapporti di associazione in partecipazione, alle collaborazioni coordinate e continuative ed ai rapporti di lavoro a progetto.
A decorrere dal 28 giugno scorso (data di entrata in vigore del Decreto Legge), pertanto, anche le dimissioni e le risoluzioni consensuali dei suddetti collaboratori autonomi dovranno essere convalidate, con le modalità in uso per i lavoratori dipendenti.
A tal proposito, peraltro, si segnala che le collaborazioni autonome vengono assimilate sempre più al lavoro dipendente anche con riferimento alla tutela in caso di appalto.
L’art. 9 del Decreto, infatti, stabilisce che la responsabilità solidale del committente – prevista dall’art. 29, comma 2, d.lgs. 276/2003 (nei limiti di due anni dalla cessazione dell’appalto) – operi anche “in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo”.