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Contratto a tempo determinato e indennità introdotte dal Collegato Lavoro

8 Aprile 2011

Le recenti pronunce della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 65/11, n. 80/11 e ordinanza del 28 gennaio 2011, n. 2112) offrono rilevanti spunti di riflessione in merito alla disciplina introdotta dal Collegato Lavoro (legge n. 183/10) in materia di contratti a tempo determinato.

Come noto, l’art. 32, comma 5, della suddetta legge n. 183 stabilisce che, nei casi in cui il contratto a termine si converta in contratto a tempo indeterminato a causa dell’illegittima apposizione del termine “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”.
Detta disciplina – a norma del successivo comma 7 e come confermato dalla Suprema Corte – si applicherebbe a tutti i giudizi di merito e di legittimità, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge (ossia il 24 novembre 2010).
Di conseguenza, le sentenze impugnate davanti alla Cassazione dovrebbero essere cassate con rinvio al giudice di merito, consentendo allo stesso di esercitare i poteri istruttori di cui al suddetto comma 7 e determinare così l’indennità spettante al lavoratore, la quale sarebbe certamente inferiore rispetto a quella dovuta ai sensi della normativa previgente.

Infatti, prima dell’entrata in vigore del Collegato Lavoro, in caso di conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro a termine, i giudici hanno sempre condannato il datore di lavoro a corrispondere al dipendente un risarcimento pari alle retribuzioni che gli sarebbero spettate fino alla effettiva riammissione al lavoro (fatto salvo l’aliunde perceptum e/o percipiendum).
Tale apparato sanzionatorio ha quindi determinato situazioni insostenibili per le strutture, obbligate a pesanti risarcimenti ed esborsi di misura non prevedibile, con conseguente incertezza sui bilanci e gravi pregiudizi patrimoniali.
In modo del tutto condivisibile, pertanto, il legislatore del Collegato Lavoro ha voluto porre rimedio a tale incertezza, unificando il criterio di liquidazione del danno dovuto ai lavoratori e quantificandolo, come detto, in un importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Ciò posto, si deve comunque osservare che, la Suprema Corte, con la suddetta ordinanza del 28 gennaio 2011, n. 2112 ha dichiarato “non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale della legge 4 novembre 2010, n. 183, articolo 32, commi 5 e 6, con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 111 e 117 Cost.”, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospendendo il giudizio in corso.
A detta della Cassazione, infatti “il danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto è pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell’inutile offerta delle proprie prestazioni e fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. La liquidazione di un’indennità eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo… impone al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo influire sulle decisioni di una singola controversia o su un gruppo di esse”.

Allo stato, quindi, eventuali giudizi (di legittimità o di merito) – in cui, si chieda l’applicazione dell’art. 32 del Collegato Lavoro e la conseguente riduzione delle somme risarcitorie richieste dal dipendente in un importo compreso tra 2,5 e 12 mensilità – potrebbero essere sospesi o interrotti sino alla pronuncia della Consulta.

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