3 Luglio 2018
Tra gli interventi contenuti nel Decreto Legge recante “Disposizioni urgenti per la dignità del lavoratore e delle imprese” – emanato nella serata di ieri – desta particolare attenzione il contenuto del Titolo I, intitolato “Misure per il contrasto del precariato”, il cui articolo 1 apporta modifiche sostanziali alla disciplina dei contratti a termine che dimostrano ancora una volta tutta l’incertezza del legislatore nell’individuazione di uno stabile punto di equilibrio tra esigenza di flessibilità delle imprese e l’aspirazione alla stabilità d’impiego dei lavoratori.
Sul punto, le novità più significative del Decreto in commento riguardano principalmente la reintroduzione della causale giustificativa del termine che, come chiarito nella relazione illustrativa, dovrà essere apposta o a partire dal secondo contratto, laddove l’impresa intenda stipulare un primo contratto acausale della durata non superiore ai 12 mesi, o, in alternativa già a partire dal primo contratto, laddove l’impresa intenda stipulare direttamente un contratto di durata superiore a 12 mesi, ma comunque entro il limite massimo del nuovo tetto temporale, ora individuato in 24 mesi, in luogo dei precedenti 36.
Inoltre, il Decreto in commento limita il numero di proroghe da 5 a 4, aumenta il tempo per impugnare l’apposizione del termine da 120 a 180 giorni e introduce l’applicazione a carico dell’impresa di un costo contributivo (aggiuntivo rispetto a quello già previsto pari ad 1,4%) crescente di 0,5 punti per ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.
Peraltro, è espressamente previsto che le disposizioni sopra richiamate si applicano anche “ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”, con la (pericolosa) conseguenza che i contratti a termine già stipulati alla data di entrata in vigore potranno essere rinnovati solo in presenza delle specifiche causali ed entro il tetto massimo di 24 mesi complessivi, mentre ai contratti già oggetto di proroga si applicherà sin da subito il nuovo limite delle quattro proroghe.
Il successivo articolo 2 stabilisce, infine, che la disciplina prevista per il contratto a tempo determinato si applica, in caso di assunzione a tempo determinato, anche al rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore, con la sola esclusione delle disposizioni di cui agli artt. 23 e 24 del d.lgs 81/15 relative, rispettivamente, al numero complessivo di contratti a tempo determinato e ai diritti di precedenza.
Orbene, esaminando il contenuto delle modifiche sopra descritte (il cui impatto sarà immediato, stante la loro applicazione anche ai contratti già in essere alla data di entrata in vigore del Decreto) appare di palese evidenza come, al di là dalle intenzioni governative, quella che viene di fatto prospettata come la soluzione del problema occupazionale e del precariato, potrebbe invero, da un lato, vanificare i progressi raggiunti proprio sotto tale aspetto a partire dal superamento della causalità del termine (introdotta con il d.l 34/2014 e confermata dall’attuale d.lgs. 81/15) e dall’altro disorientare e penalizzare principalmente le imprese “virtuose” che, della liberalizzazione del contratto a termine hanno saputo fare negli ultimi anni un utilizzo sapiente, finalizzato alla stabilizzazione del rapporto di lavoro e che, con la reintroduzione delle causali giustificative del termine, oltre a trovarsi nuovamente schiacciate dai costi conseguenti al – certo – aumento del contenzioso giudiziario e dei costi contributivi ripiomberanno in un clima di incertezza e disorientamento che avrà come conseguenza una altrettanto certa ripercussione sulle assunzioni, anche a tempo indeterminato.
Vale la pena di osservare come la causale giustificativa del termine, considerata dai più il tratto identificativo della fattispecie nonché un irrinunciabile strumento di controllo in ordine alla legittima utilizzazione del contratto di lavoro a tempo determinato, lungi dall’assolvere concretamente a tale funzione, non è invero riuscita ad imporsi quale effettivo argine contro l’abuso del termine (basti pensare che nel biennio 2010/2011 le assunzioni a tempo determinato hanno rappresentato una quota superiore al 63%).
Inoltre, l’obbligo della causale ha avuto come conseguenza la generazione di una rilevante mole di contenzioso giudiziario, anche a causa delle difficoltà interpretative in ordine alle temporanee “ragioni di carattere tecnico organizzativo e produttivo” che giustificavano l’apposizione del termine, difficoltà che hanno portato i giudici a concentrarsi, spesso, solo sui requisiti formali, a discapito di una reale indagine in ordine alla sussistenza sostanziale delle ragioni o a valutare tale sussistenza in maniera del tutto discrezionale, producendo sentenze non uniformi ed estremamente contraddittorie.
Del resto, è evidente che tale andamento ha prodotto gravi ripercussioni non solo sulle imprese – che, stremate dai costi conseguenti all’aumento del contenzioso ed alle transazioni “forzate” sono state scoraggiate ad assumere – ma anche e soprattutto sugli stessi lavoratori che, in teoria, dovrebbero essere i soggetti principalmente tutelati dalle riforme del lavoro.
Ed allora, a giudicare dagli effetti concretamente prodotti dalla causalità del contratto a termine, rivelatasi del tutto inidonea non solo ad evitare l’utilizzo fraudolento di tale tipologia contrattuale ma anche e soprattutto ad incidere positivamente sull’occupazione e sulla stabilità del rapporto di lavoro, non è dato comprendere in che modo la sua (ormai certa) reintroduzione – peraltro con l’individuazione di clausole ancora più complesse nella loro applicazione pratica – potrebbe portare ad ottenere, oggi, risultati apprezzabili su tali fronti.
Certo è, invece, che le modifiche contrattuali in commento rappresentano un ritorno al passato con conseguente rischio di paralisi di un’economia che stava finalmente iniziando a sollevarsi anche grazie alla riforma abolitiva della clausola giustificativa del contratto a termine.
Difatti, stando ai dati occupazionali risultanti dal report integrato del Ministero Lavoro, Inps, Inail, Istat e Anpal, non si può ignorare il fatto che anche grazie agli sgravi contributivi introdotti nell’anno 2015 e 2016, si è registrato un considerevole aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, anche effettuate a seguito di conversione dei contratti a termine.
Per contro, l’aumento dei contratti a tempo determinato – che deve comunque ritenersi in linea con gli altri paesi europei, atteso che la percentuale dei lavoratori a termine nell’anno 2017 si è attestata intorno al 12,5% dell’occupazione dipendente – è per lo più la diretta conseguenza dell’abolizione dei voucher, delle collaborazioni a progetto e della “stretta” operata sulle false partite iva ad opera della riforma del 2015, circostanze che hanno costretto le imprese ad avvalersi esclusivamente del contratto di lavoro subordinato, a termine o a tempo indeterminato.
E’ altrettanto innegabile che la liberalizzazione dei contratti a termine – comunque bilanciata, sotto il profilo delle tutele, dalla introduzione di un criterio legale quantitativo (più efficace e più coerente con l’attuale realtà del mercato nonché più in linea con la direttiva 1999/70) che vieta alle aziende di assumere un numero di lavoratori a tempo determinato superiore al 20% dei dipendenti a tempo indeterminato, del contributo addizionale all’Inps dell’1,4%, versato a titolo di finanziamento dell’Aspi (ora Naspi), e dalla conferma del limite temporale complessivo di utilizzo del contratto a termine pari a 36 mesi – ha prodotto come effetto primario una consistente deflazione del contenzioso giudiziario, che ha consentito alle aziende di poter investire con più serenità nelle assunzioni, utilizzando la tipologia contrattuale in oggetto per consolidare il rapporto fra datore di lavoro e lavoratore, formando risorse – ed eventualmente movimentandole da un settore produttivo all’altro – nell’ottica di una stabilizzazione del rapporto di lavoro.
Dunque, la reintroduzione delle clausole giustificative e la riduzione della durata massima dei contratti a termine pari a 24 mesi, mentre non avrà alcuna incidenza né conseguenza sulle imprese che utilizzavano – e continueranno ad utilizzare impunemente – tale strumento in maniera fraudolenta, stipulando contratti acausali di durata inferiore a 12 mesi e con sostituzione continua dei lavoratori, andrà invece a penalizzare proprio le aziende che mirano alle assunzioni stabili, utilizzando il contratto a termine come “periodo di prova lungo” in funzione della stabilizzazione.
Ciò avrà come ripercussione una ripartizione forzata del lavoro a termine tra un maggior numero di persone favorendo così il turnover dei lavoratori a tempo determinato, con conseguente perdita di professionalità formate, sia per le aziende sia per gli stessi lavoratori.
Alla luce di quanto sopra, è evidente che se l’intenzione è promuovere l’occupazione e la stabilità delle assunzioni, la soluzione non può essere individuata nella reintroduzione della causale giustificativa del termine (né nella riduzione del tetto massimo da 36 a 24 mesi, per non parlare della riduzione del numero di proroghe da 5 a 4 e dell’aumento progressivo del costo contributivo) che si è rivelata completamente fallimentare sotto tal profilo, ma deve invece essere necessariamente individuata nella stabile introduzione di incentivi che favoriscano le imprese intenzionate all’assunzione, nello snellimento e nella semplificazione della disciplina contrattuale, a favore di una maggiore flessibilità e a discapito di un inutile irrigidimento, che rischia seriamente – al contrario – di essere portatore di effetti nefasti sull’economia del lavoro.
Da ultimo, occorre anche segnalare la dirompente modifica dell’ultima ora – introdotta dall’articolo 3 – relativa alla variazione in aumento nella misura del 50% dell’indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento illegittimo (ossia quello regolato dall’art. 3, comma 1, del d.lgs 23/2015) effettuato dalle imprese rientranti nel campo di applicazione delle tutele crescenti, che oscillerà dunque tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità; questa ulteriore novità sarà oggetto di commento a parte, ma sin d’ora deve esprimersi l’auspicio che in fase di conversione vengano adottati i rimedi necessari a contenere e/o a neutralizzare le negative conseguenze che deriverebbero dalla effettiva applicazione di tali norme.