10 Settembre 2019
E’ noto come quello della conciliazione stragiudiziale – in sede amministrativa presso l’Ispettorato del Lavoro, in sede sindacale, come pure dinanzi alle commissioni di certificazione – sia uno strumento molto utilizzato al fine di dirimere, in modo rapido e definitivo, le più disparate vicende relative alla gestione e/o alla cessazione del rapporto di lavoro.
Uno strumento, peraltro, concordemente ritenuto assai utile anche in ottica di deflazione del contenzioso giudiziario, con risparmio dei costi della Giustizia e snellimento dei ruoli dei giudici, con conseguente maggiore celerità dei giudizi in corso.
E, tuttavia, le conciliazioni stragiudiziali rischiano di subire un notevole ostacolo proprio in ragione delle decisioni della Magistratura, quantomeno di merito, che sempre più spesso individua cause di nullità e/o annullamento dei verbali di conciliazione stipulati in sede stragiudiziale.
E’ il caso ad esempio della recente sentenza emessa dal Tribunale di Roma (n. 4354/2019).
Nella fattispecie, alcuni collaboratori a progetto di una piccola società erano stati richiesti dall’amministratore unico di quest’ultima di siglare un verbale di conciliazione con il quale accettavano di rinunciare ad ogni pretesa in relazione al pregresso rapporto intercorso, a fronte della assunzione a tempo indeterminato, nonché alla corresponsione di un importo di € 500,00.
Il giorno previsto per l’incombente, erano stati chiamati uno dopo l’altro nella sala riunioni della società ove trovavano, tra gli altri, un soggetto sconosciuto, presentato come rappresentante sindacale, il quale aveva proceduto a far sottoscrivere il mandato alla rappresentanza, dando loro il tempo di leggere il verbale di conciliazione, sebbene essi già lo conoscessero.
Ebbene, il giudice – chiamato a pronunciarsi sul verbale di conciliazione, in seguito alle rivendicazioni di una delle dipendenti che lo avevano sottoscritto – lo dichiara invalido per due ordini di ragioni.
In primo luogo, evidenzia come nel caso di specie il CCNL applicato dall’azienda non prevedesse una disposizione collettiva che regolasse la procedura di conciliazione sindacale.
In ragione di quanto sopra – atteso che l’art. 412 ter c.p.c., richiamato espressamente dall’art. 2113 c.c. ai fini dell’inoppugnabilità delle transazioni, prevede che le conciliazioni possano essere svolte presso le sedi e con le modalità previste dai CCNL sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative – afferma il giudice che, in assenza di una previsione della contrattazione collettiva in materia, non poteva ritenersi operante il disposto dell’art. 2113 c.c., con conseguente impugnabilità della conciliazione intervenuta.
In secondo luogo, il giudice valorizza la condotta del rappresentante sindacale, il quale si sarebbe limitato a fungere da mero testimone della conciliazione, senza fornire idoneo supporto ai lavoratori interessati, al fine di consentire loro di adeguatamente determinarsi in ordine alla sottoscrizione del verbale di conciliazione medesimo.
E così, secondo il Tribunale, il rappresentante sindacale – indipendentemente da una coartazione della volontà dei lavoratori da parte del datore di lavoro, nel frangente non verificatasi – deve essere a conoscenza della vicenda degli assistiti, provvedendo ad illustrare loro la portata e le conseguenza dell’atto abdicativo che si accingono a sottoscrivere, condotta che nel caso di specie era mancata, essendosi limitato il sindacalista a rappresentare ai suoi assistiti l’impossibilità di avanzare future rivendicazioni a seguito della sottoscrizione del verbale di conciliazione.
Per certi versi ancora più dirompente la decisione del Tribunale di Napoli (sent. n. 3729/19).
Nella fattispecie, in occasione di una successione di imprese nell’ambito di un appalto, i lavoratori dell’azienda uscente sottoscrivevano un verbale di conciliazione presso l’Ispettorato del lavoro nel quale, a fronte dell’assunzione presso la nuova azienda (peraltro con la garanzia dell’art. 18 Stat. Lav. previgente al “Jobs Act“), rinunciavano all’applicazione dell’art. 2112 c.c. (in tema di trasferimento d’azienda) e ad ogni pretesa nei confronti del precedente datore di lavoro.
Nella circostanza, il giudice adìto – chiamato a pronunciarsi sulla validità del verbale di conciliazione sottoscritto, per effetto delle pretese azionate da parte di una delle lavoratrici che lo aveva sottoscritto – lo annulla, dichiarando viziato il consenso della dipendente.
In particolare, il giudicante afferma che la missiva con la quale l’amministratore della società subentrante subordinava la proposta di assunzione alle proprie dipendenze all’accettazione da parte delle lavoratrici di determinate condizioni, tra cui la rinuncia alle azioni nei confronti del precedente datore di lavoro – affermazione poi ribadita verbalmente in sede di sottoscrizione del verbale di conciliazione – assume il valore di minaccia di un male ingiusto, con conseguente coartazione della volontà delle lavoratrici, che si sono trovate nell’alternativa tra la perdita del lavoro e la prosecuzione del rapporto ma rinunciando alle azioni nei confronti del precedente datore di lavoro.
Ebbene, alla luce di quanto sopra, non vi è chi non vede come – allo stato attuale – il ricorso alla conciliazione stragiudiziale, laddove possibile, appare comunque sempre più incerto e rischioso, estremamente limitato da interpretazioni giurisprudenziali spesso assai restrittive, quando non addirittura forzate, se non nei princìpi, quantomeno nell’applicazione pratica, come dimostra la richiamata sentenza partenopea.
Di tutto ciò, i datori di lavoro dovranno necessariamente tenere conto, al fine di evitare fastidiosi “ritorni” di questioni che ritenevano di avere ormai definitivamente superato.