La Suprema Corte interviene (finalmente) senza incertezze a censurare la condotta – fin troppo disinvoltamente posta in essere da molti medici di base – di quei sanitari che certificano stati patologici senza effettuare alcuna visita sul paziente e sulla scorta della sola sintomatologia loro riferita, magari per telefono, dai propri assistiti.
Una prassi, questa, davvero deprecabile quanto diffusa, che, con la sentenza emessa in data 15 maggio u.s., è stata incisivamente stigmatizzata dal Supremo Collegio, che ha confermato le condanne emesse a carico di un medico e della sua paziente.
Il caso è relativo ad un certificato medico di proroga di una prognosi redatto da un medico di base – quindi pubblico ufficiale – in favore della propria assistita, senza che questa si fosse da lui recata per essere opportunamente visitata, bensì semplicemente sulla base delle dichiarazioni fornitegli telefonicamente dalla paziente.
Ne era seguito un procedimento penale, all’esito del quale tuttavia gli imputati – il medico e la sua paziente appunto – erano stati assolti dai reati loro ascritti, vale a dire falso ideologico per il medico e uso di atto falso per la paziente.
La Corte d’Appello adita dalla Procura, tuttavia, ribaltava la decisione, condannando entrambi per i reati in esame. Pronuncia, infine, confermata dalla Corte di Cassazione che non ritiene di accogliere le difese degli imputati.
In particolare, il medico si difendeva affermando l’infondatezza dell’accusa in quanto il certificato di proroga era stato redatto appena quattro giorni dopo l’emissione del primo certificato di malattia e i sintomi descrittigli dalla paziente erano assolutamente compatibili con la patologia certificata, di talché legittimamente poteva certificare la prosecuzione della patologia. Ad ogni buon conto, non sarebbe stata ravvisabile alcuna condotta dolosa da parte del medico, se mai tratto in inganno dalle false dichiarazioni della paziente, con la conseguenza della sua assoluzione per l’inesistenza nel nostro ordinamento di un reato di falso colposo.
A sua volta, la paziente protestava la sua innocenza quale conseguenza della legittimità della condotta del sanitario, che non aveva commesso alcuna falsità atteso che ben poteva, per effetto della sua pluridecennale esperienza, desumere la prosecuzione della patologia anche solo sulla scorta dei sintomi rappresentatigli telefonicamente.
La Suprema Corte, tuttavia, sgombra il campo dagli equivoci, evidenziando l’irrilevanza delle argomentazioni in questione.
Ed invero, spiegano i giudici “la falsa attestazione attribuita al medico non attiene tanto alle condizioni di salute della paziente, quanto piuttosto al fatto che egli ha emesso il certificato senza effettuare una previa visita e senza alcuna verifica oggettiva delle sue condizioni di salute, non essendo consentito al sanitario effettuare valutazioni o prescrizioni semplicemente sulla base di dichiarazioni effettuate per telefono dai suoi assistiti. Ciò rende irrilevanti le considerazioni sulla effettiva sussistenza della malattia o sulla induzione in errore da parte della paziente”.
Neppure accoglibile la tesi dell’assenza di dolo, atteso che si chiede il Supremo Collegio “come il medico potesse non essere consapevole del fatto che egli stava certificando una patologia medica senza averla previamente verificata, nell’immediatezza, attraverso l’esame della paziente”.
Da tali osservazioni discende, poi, il rigetto delle argomentazioni della paziente, la cui difesa si fondava esclusivamente sulla ritenuta insussistenza della falsità del documento e dunque sulla inesistenza del reato contestato al medico.
In conclusione, i medici di base sono avvisati: la certificazione di malattia – anche quella della sola proroga – può essere redatta solo all’esito di una reale visita del paziente. Diversamente, potrà essere loro contestato il reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative (art. 480 c.p.) e, al lavoratore che lo utilizzi presentandolo al datore di lavoro, quello di uso di atto falso (art. 489 c.p.).
Da parte loro, le Strutture che dovessero imbattersi in certificazioni evidentemente redatte in assenza di una visita potranno contestare disciplinarmente al dipendente l’uso di un atto falso e segnalare l’operato del medico all’Ordine dei Medici competente, se non addirittura all’Autorità Giudiziaria per i provvedimenti di competenza.