29 Aprile 2011
Tra le tante novità introdotte dalla l. n. 183/2010 (cd. “Collegato lavoro”) vi è anche una (discutibile) previsione, relativa alla tipizzazione delle motivazioni sottese al licenziamento dei lavoratori.
Il comma 3 dell’art. 30 della predetta legge prevede, infatti, che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del d.lgs. 276/03 e s.m.i.”.
Una simile disposizione, per la portata che potrebbe rivestire, merita di essere esaminata con attenzione.
La maggior parte dei contratti collettivi vigenti già contiene, infatti, una elencazione di comportamenti o inadempimenti del lavoratore che possono portare all’adozione della massima sanzione espulsiva: basti pensare ai contratti collettivi stipulati dall’Aris per la regolamentazione dei rapporti di lavoro con il personale medico e non medico (rispettivamente artt. 11 e 41), nei quali è presente un elenco di condotte ritenute talmente gravi da giustificare l’irrogazione del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo.
La giurisprudenza ha sempre attributo carattere meramente esemplificativo alle predette tipizzazioni delle condotte idonee a giustificare il licenziamento (cfr. Cass. 16 marzo 2004, n. 5372): così, se da un lato il giudice ben può prescindere dall’elencazione operata dal contratto ai fini dell’individuazione della sanzione più appropriata (Cass. 26 marzo 2007, n. 7300), dall’altro anche il datore di lavoro può ricorrere alla massima sanzione nel caso di condotte che – benché non tipizzate – appaiano idonee a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, ovvero a costituire comunque un gravissimo inadempimento.
Con particolare riferimento all’ipotesi di giusta causa di licenziamento, la Suprema Corte ha, in più occasioni, specificato che “la nozione di giusta causa di licenziamento ha la sua fonte diretta nella legge e pertanto, l’elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti collettivi ha valenza esemplificativa e non tassativa” (cfr. Cass. 19 dicembre 2008, n. 29825).
In particolare, secondo i giudici, “La valutazione, poi della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa deve esser compiuta alla stregua della ratio dell’art. 2119 c.c., e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione” (cfr. Cass. 29825/08 cit.).
Secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione, dunque, le condotte tipizzate nel contratto collettivo come idonee a legittimare l’adozione del licenziamento hanno valenza meramente esemplificativa e non tassativa e ben possono essere utilizzate dal giudice del merito al fine di valutare la gravità dell’inadempimento o della lesione del vincolo fiduciario, sebbene “non siano idonee da sole a fornire il parametro per verificare la sussistenza o meno della concreta lesione di quel vincolo” (cfr. Cass. 10 dicembre 2002, n. 17562).
Rebus sic stantibus, appare pertanto necessario comprendere se la disposizione introdotta dal Collegato lavoro abbia valore dirompente rispetto al passato (nel senso di attribuire valore tassativo alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo contenute nei contratti collettivi o individuali, questi ultimi purché certificati), ovvero se il legislatore si sia semplicemente limitato a ribadire un principio già affermato dalla giurisprudenza in relazione alla possibilità del giudice di tener conto della volontà delle parti (individuali e collettive) in ordine agli episodi che possono determinare il recesso dal rapporto di lavoro, senza tuttavia esserne vincolato.
Nel primo caso, tale disposizione assumerebbe enorme importanza ai fini della disciplina sul licenziamento, perché darebbe – per la prima volta – ai datori di lavoro la certezza di procedere alla risoluzione del rapporto, in presenza dei comportamenti tipizzati, senza timori di smentite da parte dei giudici in ordine alla legittimità del provvedimento adottato.
Al fine di evitare abusi cui un simile istituto potrebbe facilmente prestarsi vi sarebbero, poi, la necessità di concordare tali previsioni in sede contrattuale (rimettendo così alle parti sociali l’equo bilanciamento degli interessi in gioco) ovvero, in caso di pattuizioni previste direttamente nel contratto individuale di lavoro, la necessità di ottenere la certificazione dello stesso ad opera delle previste Commissioni.
A sostegno di una simile interpretazione non è, tuttavia, possibile utilizzare in maniera certa il dato letterale, atteso che la locuzione “il giudice tiene conto” non equivale certamente a dire che il giudicante sia vincolato alle previsioni contenute nel contratto collettivo o individuale (certificato), ma – più verosimilmente – che lo stesso debba tenere conto, tra gli altri elementi (proporzionalità della sanzione alla condotta, alla luce della natura e della qualità del rapporto di lavoro, della posizione delle parti, del tipo di mansioni espletate e dell’entità della mancanza, valutata sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo del dolo o della colpa) anche delle valutazioni operate dalle parti in ordine alle conseguenze di una determinata condotta.
E’ evidente, tuttavia, che se tale è la portata della disposizione in commento nulla è immutato rispetto al regime previgente, in cui le previsioni contenute nei contratti collettivi (o nei regolamenti aziendali unilateralmente predisposti dai datori di lavoro) servivano ad orientare il giudice, ma non erano certamente idonee da sole a giustificare il provvedimento adottato.
L’unica novità introdotta dal Collegato lavoro sembra essere rappresentata, pertanto, dalla possibilità di individuare ulteriori e peculiari condotte che possono portare al licenziamento del lavoratore all’interno del contratto individuale di lavoro, seppur con i limiti sopra individuati in ordine all’incidenza di tali previsioni sulle valutazioni del giudice e con l’onere di passare, in ogni caso, per il vaglio della Commissione di certificazione.