2 Settembre 2016
Certamente quella del 2016 sarà ricordata come una estate calda, dal punto di vista giurisprudenziale, per i lavoratori in malattia.
Infatti, già la sentenza n. 15226/2016, commentata con precedente news, ha avuto modo di esplicitare che, durante l’assenza dal lavoro per motivi di salute, il dipendente ha l’obbligo di collaborare con il datore di lavoro al fine di non produrre disagi ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla mera sospensione della prestazione lavorativa.
Con la recentissima sentenza n. 11893 del 16 agosto 2016, inoltre, la Suprema Corte è nuovamente intervenuta sull’argomento, evidenziando che il semplice ottenimento di un certificato di malattia non copre il lavoratore da ogni possibile contestazione circa la giustificatezza della propria assenza.
Secondo la Cassazione, infatti, l’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori – che consente “il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti” – non preclude “che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto – pur non risultante da un accertamento sanitario – atta a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa e quindi a giustificare l’assenza”.
Di conseguenza, come peraltro da tempo evidenziato da molti giudici di merito e da autorevole dottrina, la sussistenza della malattia del lavoratore (o l’idoneità della stessa a giustificare l’assenza) può essere contestata non solo sulla base dell’esito delle c.d. visite fiscali, ma anche in forza di elementi esterni, acquisiti direttamente dal datore di lavoro ovvero mediante il tramite di agenzie investigative.
A tal ultimo proposito, infatti, la Cassazione ha ribadito il proprio consolidato orientamento secondo cui tali agenzie private possono essere utilizzate al fine di verificare eventuali comportamenti illeciti del dipendente non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione lavorativa.
La sentenza in esame, pur non introducendo principi innovativi nel nostro ordinamento, appare meritevole di evidenza in quanto, in modo chiaro ed esplicito, affronta il tema delle attività esterne svolte dai lavoratori durante la malattia non sotto il profilo (tradizionale) della capacità delle stesse a pregiudicare o ritardare la guarigione, ma sotto quello della loro idoneità a dimostrare la sussistenza di una “simulata malattia”.
E ciò in quanto talvolta i comportamenti esterni dei dipendenti sono del tutto incompatibili con la malattia dichiarata (ad esempio: salire una scala a pioli per un dipendente con sindrome vertiginosa); altre volte, invece, i lavoratori vengono sorpresi a svolgere attività che, seppur astrattamente compatibili con la patologia lamentata, risultano ben più pesanti e faticose di quelle ordinariamente richieste sul luogo di lavoro (si pensi ad un ausiliario assente per emicrania che sia intento ad effettuare un trasloco ed a sollevare pesi), le quali quindi fanno sorgere il dubbio che la malattia dichiarata non determini alcuna impossibilità lavorativa.
La sentenza, infine, affronta nuovamente il tema della tempestività del licenziamento disciplinare, evidenziando che – qualora il ccnl preveda un termine per l’adozione della sanzione decorrente dalle controdeduzioni – la violazione di tale precetto rappresenta un mero vizio procedurale e, quindi, non determina la reintegra del dipendente, ma (nel regime introdotto dalla Riforma Fornero) il mero riconoscimento nei suoi confronti di una indennità di importo variabile dalle 6 alle 12 mensilità.