16 Febbraio 2018
E’ bastata la mera approvazione del relativo brevetto a scatenare nel nostro Paese accese reazioni in ordine alla possibilità che il braccialetto, ideato dal colosso americano Amazon, per guidare i lavoratori ad una più rapida individuazione delle merci all’interno dei magazzini potesse essere impiegato anche nelle sedi italiane.
La criticità risiederebbe, in particolare, nel costante controllo dei movimenti del lavoratore, che tale braccialetto sarebbe in grado di guidare, tracciando contestualmente i tempi di risposta del dipendente rispetto all’input ricevuto dal congegno.
Nel dibattito pubblico di unanime (ma forse preconcetta) condanna per un simile strumento, i commentatori si sono divisi tra chi ritiene che il braccialetto possa essere tranquillamente introdotto anche in Italia, grazie alla modifica all’art. 4 Stat. Lav. apportata dal d.lgs. n. 151/15 e chi afferma, invece, che il nostro sistema sia sufficientemente garantistico e tale da impedirne l’introduzione nelle aziende.
Probabilmente, la verità sta nel mezzo, come spesso accade.
L’analisi della vicenda non può che partire dall’attuale formulazione del citato art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ai sensi del quale: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali.
La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.
Orbene, è fuor di dubbio che l’utilizzo del braccialetto in argomento realizzerebbe le esigenze produttive richiamate dalla norma (in quanto faciliterebbe e velocizzerebbe la prestazione del lavoratore), ma potrebbe essere considerato uno degli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione”, tale da esonerare il datore di lavoro dal preventivo accordo con i sindacati?
Al riguardo, occorre tener presente che l’Istituto Nazionale del Lavoro ed il Garante della privacy si sono più volte espressi sulla necessità di interpretare in maniera restrittiva la nozione degli strumenti da lavoro, considerando come tali solo “quegli apparecchi, dispositivi, apparati e congegni che costituiscono il mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa dedotta in contratto, e che per tale finalità siano stati posti in uso e messi a sua disposizione” ed escludendo, invece, quelli che rappresentano dei meri “ausili” allo svolgimento della prestazione.
Se questo è il parametro di riferimento, si potrebbe sostenere che il bracciale non sia uno strumento lavorativo essenziale per la prestazione (anche perché, ad oggi, i dipendenti di Amazon di tutto il mondo non ne sono dotati e sono comunque in grado di svolgere la loro attività), sebbene faciliterebbe e velocizzerebbe il lavoro di quanti sono addetti ai magazzini.
Ne consegue che l’eventuale introduzione di tale strumento in Italia, se non è automatica grazie al Jobs Act come sostenuto da alcuni, non è neanche certamente ed aprioristicamente vietata, come dichiarato da altri, posto che per esigenze produttive potrebbe sempre essere introdotto negli ambienti di lavoro.
Tuttavia, l’utilizzo del bracciale della discordia dovrebbe necessariamente essere condizionato a preventivi accordi con le OO.SS. (ovvero alle autorizzazioni rilasciate dall’Ispettorato del Lavoro) che ben potranno individuare limiti nel suo uso, nella registrazione dei dati e nell’utilizzo delle risultanze, così da rendere compatibile l’esigenza di un più efficiente svolgimento della prestazione lavorativa (finalizzato all’incremento di produttività) con la tutela della dignità del lavoratore e della sua privacy.