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Anche la Corte di Giustizia Europea salva la “doppia” disciplina dei licenziamenti collettivi

13 Aprile 2021

Con la recente sentenza del 17 marzo 2021 la Corte di Giustizia UE si è pronunciata sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Milano con ordinanza del 5 agosto 2019 (si cfr. precedente news) circa la compatibilità della normativa nazionale applicabile (cd “Fornero” e al contempo “Jobs Act”) ai licenziamenti collettivi con il diritto dell’Unione Europea, anche sotto il profilo della eventuale violazione del principio della parità di trattamento.

Al riguardo, si rammenta come la fattispecie sostanziale oggetto dell’ordinanza di rinvio riguardi una procedura di licenziamento svolta dalla società Consulmarketing, nell’ambito della quale tutti i lavoratori che hanno impugnato il recesso sono stati reintegrati per violazione dei criteri di scelta, fatta eccezione per una dipendente, esclusa da tale tutela (e destinataria di una tutela meramente indennitaria) in quanto – pur essendo stata assunta a tempo determinato prima del 7 marzo 2015 – la trasformazione a tempo indeterminato del suo rapporto sarebbe avvenuta in epoca successiva a tale data, con conseguente applicabilità della normativa prevista dal Jobs Act.

Come noto, infatti, il suddetto riferimento temporale (7 marzo 2015) costituisce il discrimine tra l’applicabilità dell’art. 18 St. Lav. così come modificato dalla Riforma Fornero (e richiamato dalla legge. 223/91) – che prevede in caso di licenziamento illegittimo per violazione dei criteri di scelta la tutela reintegratoria – o, invece, della disciplina del contratto a tutele crescenti di cui all’art. 10 del d.lgs 23/15 (Jobs Act) – che prevede, nella medesima ipotesi, la sola tutela indennitaria.

A ciò si aggiunga che, per espressa previsione del suddetto decreto legislativo (art. 1, co. 2), le disposizioni ivi contenute sono applicabili anche “nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato … in contratto a tempo indeterminato”.

Ebbene, a parere del giudice del rinvio la coesistenza dei suddetti regimi di tutela, come pure la circostanza che la data di conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato debba considerarsi, ai fini dell’applicabilità della disciplina del Jobs Act, quale nuova assunzione, si porrebbero in conflitto con i principi del diritto comunitario (segnatamente le direttive 95/59/CE in materia di licenziamenti collettivi, 99/70/CE e l’art. 4 accordo quadro, in materia di lavoro a tempo determinato, nonché gli artt. 20 e 30 della Carta Fondamentale dell’Unione Europea) in particolar modo sotto il profilo della adeguatezza ed effettività della tutela avverso il danno subìto dalla perdita del posto di lavoro e della violazione del principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato.

La Corte di Giustizia – dopo aver rilevato che l’interpretazione delle disposizioni nazionali è di esclusivo appannaggio dei giudici dei singoli Stati Membri e non della Corte, la quale è competente esclusivamente a fornire al giudice nazionale gli elementi interpretativi del diritto comunitario utili a consentirgli una autonoma valutazione circa la compatibilità delle norme di diritto interno con quelle dell’Unione – ha, sotto un primo profilo, ritenuto che “una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione dei criteri di scelta” non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59, il cui principale obiettivo è quello di imporre agli Stati Membri il rispetto della procedura di informazione e consultazione sindacale in materia di licenziamenti collettivi, e non certo quello di “istituire un meccanismo di compensazione economica generale a livello dell’Unione Europea”.

Conseguentemente, le modalità della tutela che deve essere accordata ad un lavoratore che sia stato oggetto di un licenziamento collettivo illegittimo in ragione di una violazione dei criteri di scelta resta di esclusiva competenza del giudice nazionale, stante l’assenza di collegamento con gli obblighi previsti dalla suddetta direttiva.

Quanto poi, alla invocata disparità di trattamento tra i lavoratori assunti a tempo determinato e a tempo indeterminato, con conseguente violazione del principio di non discriminazione, la Corte ne ha escluso la sussistenza, poiché ha ritenuto compatibile la normativa nazionale con il dettato previsto dall’art. 4 dell’accordo quadro, statuendo che “l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato rientra in una più ampia riforma del diritto sociale italiano il cui obiettivo è quello di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato” e che “in tali circostanze, una siffatta misura di assimilazione si inserisce in un contesto particolare, da punto di vista sia fattuale che giuridico, che giustifica in via eccezionale la differenza di trattamento”.

In definitiva, il doppio regime sanzionatorio esistente in materia di licenziamenti collettivi – già fatto salvo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 254/2020, sul presupposto dell’insufficiente motivazione del Giudice del rinvio circa la rilevanza della questione  (si cfr. news e sentenza) –  resiste, per il momento, anche alle censure sollevate in sede comunitaria.

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